Sviluppo psichico: peculiarità dell’infanzia o processo in continuo divenire?
Sviluppo psichico: peculiarità dell’infanzia o processo in continuo divenire?
Delle grandezze, quella che ha dimensione uno è linea, quella che ha dimensione due è superficie, quella che ne ha tre è corpo.
E al di fuori di queste non si hanno grandezze.
Aristotele, 350 a.C.
Una riflessione sullo sviluppo del bambino in un’ottica che consideri l’intero ciclo di vita dovrebbe porsi la domanda se lo sviluppo psichico debba essere considerato circoscritto a una fase particolare della vita piuttosto che assumere un vertice che consideri il ciclo di vita stesso un periodo di evoluzione continua. In ordine a questa considerazione espliciterò alcune riflessioni a partire dai concetti di “emergenza” (Galatzer-Levy, 2002) e di “evoluzione punteggiata” (Gould, 2007). Entrambi questi costrutti ben si inseriscono nella cornice epistemologica della complessità (Bocchi e Ceru- ti, 2007) e nessuno può pensare di esimersi dal teorizzare senza far ricorso ai presupposti epistemici della sua epoca.
Da Freud in poi, ogni teoria dell’evoluzione dell’individuo ha perseguito un credo scientista, usando, come credenziali di scientificità, concetti e argomentazioni tratte dalle scienze della natura e nella varietà dei modelli che si sono susseguiti nel tempo è possibile individuare alcune variabili comuni che sono rimaste costanti anche se più o meno enfatizzate a seconda del riferimento specifico ma ugualmente dettate da analoghi presupposti epistemici (Milanesi e De Robertis, 2013). Tra esse, per quel che in questo scritto vorrei dimostrare, ritengo opportuno evidenziare in primo luogo l’idea dello sviluppo come dispiegamento lungo una progressione regolare, precostituita e ben definita nel tempo di fasi e tappe successive; in secondo luogo l’idea della sua terminabilità e cioè che, a parte rare eccezioni come quelle di Erikson (1982) e di Jung (1954) in cui lo sviluppo è concepito come svolgersi lungo l’intero ciclo di vita, l’opinione dominante è che esso si completi nell’infanzia con il superamento del complesso edipico o eventualmente con il finire dell’adolescenza. Tali costrutti, come fossero postulati, hanno costantemente accompagnato ogni concezione dello sviluppo e poggiano la loro essenza su presupposti epistemologici positivisti tra cui quelli della presunta universalità e assolutezza delle leggi che governano la natura e quello evidente della causalità diretta e lineare. In base a quest’ultimo, il soddisfacente superamento di ciascuna fase evolutiva risulta essere un prerequisito essenziale affinché si possa accedere alla fase successiva e, soltanto assolto questo prerequisito, la fase precedente risulterà abbandonata in modo definitivo.
L’origine di tale impostazione come “formula” dello sviluppo è rintracciabile verso la fine del diciannovesimo secolo nell’interesse di Freud riguardo l’embriologia, (Sulloway, 1979); cioè l’idea che l’evoluzione psicologica sia sequenziale e giunga ad un suo completamento deriva dagli studi di Freud sullo sviluppo embrionale basati sul concetto che passaggi predefiniti della crescita dell’embrione conducano verso un organismo definitivamente maturo.
Volgiamo ora lo sguardo al secondo punto sopra citato e che ha animato il dibattito evolutivo almeno quanto il costrutto della sequenzialità; mi sto riferendo al concetto di completamento dello sviluppo.
Erik Erikson (1950, 1882), allievo di Anna Freud, ha proposto in tal senso una nuova prospettiva nel momento in cui ha denunciato e individuato il limite della concezione freudiana nel ritenere l’evoluzione del bambino completata con la risoluzione del complesso edipico, seppur contemplando alcune modificazioni durante la pubertà. Su questo tracciato Peter Blos (1962, 1979) e Anna Freud (1957), hanno suggerito che anche l’adolescenza è un periodo di ulteriore sviluppo, tuttavia anche questi autori, eredi di un’immagine di crescita intesa come spostamento verso un completamento o un termine, hanno dichiarato che lo sviluppo psicologico e quello fisico terminano entrambi nella tarda adolescenza. Uniche eccezioni, come già detto, furono Erikson (1882) e Jung (1954) che hanno contestato l’idea della terminabilità dello sviluppo e lo hanno invece concepito come trend presente lungo tutto l’arco di vita. La visione dominante fu però indubbiamente quella che vedeva lo sviluppo psicologico come completabile, inoltre l’eccessiva enfasi attribuita alle esperienze primarie, insieme alla complicità del concetto di fissazione e regressione, ha condotto al paradosso di concepire linee evolutive interrotte e statiche, facendo sorgere l’idea che “i giochi siano fatti” col finire della prima infanzia e tutt’al più nella seconda. Staticità e ripetizione divennero le forme paradossali entro cui concepire l’evoluzione generando l’ossimoro di uno sviluppo senza sviluppo e confliggendo con la logica secondo la quale il più semplice non può spiegare il più complesso (Milanesi e De Robertis, 2013).
Dietro l’assunto della terminabilità dello sviluppo che assurge a postulato si compie l’apriori epistemologico che ha imposto la ricerca di leggi o assunti assoluti e universali a spiegazione della realtà: in questo senso l’idea del completamento dello sviluppo è espressione speculare del bisogno di un “completamento”, assoluto appunto, e quindi definitivo di un pezzo del sapere in una dimensione di esso. Sullo sfondo di questi postulati è comprensibile come Freud arrivò a distinguere la psicoanalisi dalla semplice analisi di fenomeni psicologici compositi, dichiarando che essa «consiste nel risalire da una struttura psichica ad un’altra che l’ha preceduta nel tempo e dalla quale essa si è sviluppata» (Freud, 1912-13, p. 183) e inventò delle tecniche di trattamento che avevano l’obiettivo di ricostruire e comprendere la natura delle esperienze precoci procedendo, attraverso l’analisi di pazienti adulti, in senso retrogrado e codificando così un metodo che invece di avanzare in senso anterogrado, coerentemente con quanto l’oggetto di studio avrebbe richiesto, si muoveva in direzione opposta.
L’emergenza
Il concetto di emergenza viene tratto dallo studio generale dei sistemi complessi dinamici e non lineari (Thelen e Smith, 1994) e per molti aspetti può spingere a ripensare e ridisegnare il modo in cui in psicoanalisi si è teo- rizzato lo sviluppo e il cambiamento psicologico. Questo concetto si riferi- sce a quelle situazioni in cui osserviamo comparire qualcosa dal nulla. È il modo in cui nei sistemi complessi appaiono improvvisamente nuove configurazioni, inaspettate e qualitativamente distinte. Shakespeare scrisse: «Nulla può essere fatto dal nulla» (King Lear, I.iv. 131). La saggezza popolare, in modo forse meno eloquente ma altrettanto convincente sostiene qualcosa che può venire semplificato con la locuzione che “non si può ottenere qualcosa senza aver dato niente in cambio”. Così possiamo dire che nel pensiero morale, economico e scientifico è idea comune e pervasiva, come apriori epistemologico, che le risultanze di una qualunque processualità siano in qualche modo proporzionali a ciò che è stato messo in gioco. Questo apriori trova il suo miglior compimento nelle leggi di conservazione delle scienze fisiche le quali affermano che, nonostante le apparenti trasformazioni che avvengono nei sistemi, qualcosa viene conservato. Queste leggi, dotate di grande potere persuasivo e considerate universali, sono la conservazione della massa e dell’energia (o massa-energia nella teoria della relatività), la conservazione della quantità di moto nei sistemi meccanici e la conservazione della carica elettrica. La loro scoperta e il loro studio sono stati un viatico tra i più efficaci per la comprensione razionale della natura. Gli stessi presupposti sono rinvenibili nel discorso morale contemporaneo, fortemente influenzato dall’etica protestante del lavoro, che enfatizza come l’impegno personale nel lavoro sarà seguito sicuramente da risultati sul piano spirituale, morale e da benessere materiale (Weber, 1905). Freud ha tentato di tradurre nella psicologia i principi di conservazione, trasferendoli alle funzioni psichiche ma lo sforzo di sviluppare in senso quantitativo la comprensione delle dinamiche mentali è stato abbandonato e gli psicoanalisti hanno generalmente rinunciato a questo tentativo perché giudicato senza futuro e perché antitetico rispetto alle principali linee di pensiero dell’avanguardia psicoanalitica (Gill, 1976). Tuttavia, nel lavoro clinico e nella teoria, l’argomento della proporzionalità tra l’input e l’output, tra causa ed effetto, tra ciò che viene messo in gioco e il risultato o la ricompensa, per ciò che concerne la fatica o il tempo dedicato, rimane un luogo comune.
Le leggi di Boltzmann (1999), uno dei più grandi fisici teorici di tutti i tempi, per cui l’energia dell’universo sarebbe costante e l’entropia dell’uni- verso tenderebbe verso un massimo, suggerisce drammaticamente che, non solo non si può ottenere qualcosa per niente, ma che il decadimento inevitabile dei sistemi verso il disordine e l’equilibrio indifferenziato implica del lavoro, necessario per mantenere l’ordine e inoltre è sempre probabile che sopraggiunga il disordine.
Come questi esempi suggeriscono, le leggi di conservazione apportano i loro più grandi contributi nello studio dei sistemi fisici relativamente semplici ma è bene notare che esiste una classe di fenomeni, detti “fenomeni non lineari” (ad esempio i fenomeni caotici) per i quali le leggi della ter- modinamica (e quindi anche l’entropia) devono essere profondamente rivisitate e non hanno più validità generale; nei sistemi complessi, il principio che “nulla può essere ottenuto dal nulla” perde di consistenza e significato (Lorenz, 1993).
Il concetto di emergenza si riferisce a quelle situazioni in cui sembra proprio che qualcosa appaia dal nulla e conferisca un salto qualitativo al sistema, si attua cioè un’evoluzione.
Vorrei evidenziare due aspetti caratteristici del fenomeno emergente: in primo luogo la presenza di fattori decisamente significativi che non sono riconducibili alla somma delle parti da cui deriva, cioè l’agglomerarsi di certe componenti da vita a qualcosa che non sarebbe potuto accadere se tali componenti fossero rimaste separate come ad esempio quattro segmenti uniti a formare un quadrato; in secondo luogo, da una prospettiva umana e psicologica, si deve evidenziare il senso di sorpresa che sempre accompagna questi fenomeni. Colpisce il fatto che qualcosa di nuovo appare ina- spettatamente, sorge da un contesto che per nulla avrebbe fatto pensare all’emergere di detta novità, nessuna suggestione l’avrebbe fatta prevedere, qualcosa arriva out of the blu (Taerk, 2002).
Alcuni fenomeni a cui capita di assistere anche quotidianamente, dipendono dal fatto che tutti gli elementi di un’unità funzionano in armonia proprio come un sistema. Si consideri il Koan1 Zen che chiede: «qual è il suo- no dell’applauso fatto con una sola mano?» Anche se è forte la tendenza ad affrontare la questione attraverso una logica riduzionista, attribuendo il battere delle due mani a ciascuna singola mano, ciò non rappresenta certamente una spiegazione soddisfacente. Fino a che un sistema è considerato costituito da due mani, la questione o è insignificante (cioè una mano da sola non può applaudire) o si risponde che non si produce alcun suono. Si tratta di un aspetto intrinseco dell’applaudire che la proprietà dell’applauso “emerga” solo dal sistema di due mani coordinate tra loro.
Un esempio di un sistema che si dice implichi emergenza è l’insieme di Mandelbrot2 perché in esso appaiono qualità assolutamente sorprendenti.
L’insieme di Mandelbrot (1982) è una configurazione geometrica gene- rata da regole estremamente semplici, ma la sua organizzazione geometrica è estremamente complessa, in un certo senso, infinitamente complessa. Si tratta della geometria dei frattali cioè di oggetti geometrici fatti di parti in un certo senso simili al tutto in cui il piccolo sta nel grande e viceversa cioè le forme si ripetono e si assommano dando origine a fenomeni complessi e apparentemente molto diversi. Il fattore interessante è che pur nella diversità, in realtà i fenomeni sono uguali nelle istanze di base della loro struttura infatti contengono elementi che, su ingrandimento, hanno strutture qualitativamente simili ma distinte dal frattale di cui fanno parte. Un oggetto frattale appare sempre con le stesse caratteristiche, qualunque sia la risoluzione con la quale l’osserviamo. Ingrandendo la figura si ottengono forme ricorrenti ed ogni ingrandimento, invece di perdere dettaglio, si arricchisce di nuovi particolari.
I frattali contengono molte qualità sorprendenti, che anche l’individuo più intelligente non potrebbe ipotizzare dalle sottostanti equazioni. Infatti, queste proprietà sono state apprezzate solo quando la grafica generata al computer ha permesso a Mandelbrot, nel 1982, di vedere la forma geometrica dell’insieme (Devaney e Keen, 1989). Tuttavia, in un certo senso le equazioni per l’insieme di Mandelbrot, dato che contengono tutte le infor- mazioni del sistema, descrivono completamente l’insieme.
Adam Smith (1776) ha osservato che quando ogni individuo in una co- munità agisce nel proprio interesse, emerge un sistema economico in cui la comunità riesce a soddisfare una vasta gamma di esigenze dei suoi membri nonostante non vi sia alcun piano preesistente di una tale organizzazione reciproca. Smith si riferisce a questo fenomeno come a una “mano invisibile” perché la struttura economica che si verifica quando molte persone agiscono i propri interessi, apparentemente non coordinati, lascia presupporre l’esistenza di una forza che pare orientare le varie attività.
Molti altri fenomeni emergenti sono stati studiati e hanno lasciato per- plessi a lungo prima di poter giungere a una concezione condivisa del concetto di emergenza e a una apertura del sapere scientifico che ne contemplasse lo studio. Infatti, dobbiamo constatare che il principale impulso in avanti dato alla scienza si è concretizzato attraverso un movimento che si muoveva in direzione sostanzialmente opposta nonostante esempi di fenomeni emergenti, come quelli citati ed altri ancora altrettanto significativi, fossero ben noti già prima della metà del XIX secolo. Mi sto riferendo al cosiddetto programma “riduzionista”. Questo programma sosteneva che i fenomeni si sarebbero dovuti studiare e comprendere attraverso la scomposizione nelle loro più piccole parti dimostrando come le singole componenti potevano condurre a manifestazioni assai più complesse come la vita biologica o le funzioni psicologiche superiori, smarrendo però in tal modo il senso dell’insieme e rigettando come non scientifica ogni spiegazione fondata su concettualizzazioni riferibili in sintesi al Koan zen prima citato. Brücke, maestro di Freud, fu un grande sostenitore del programma riduzionista e fu uno degli scienziati che giurò di “ridurre” la biologia alla fisica e alla chimica. Questa visione, con il suo retroterra epistemico, è stata tra le più potenti ispirazioni degli ideali scientifici di Freud (Jones, 1953) e ha portato allo spettacolare successo scientifico del programma che continua tuttora nel campo della biologia molecolare. Si deve però evidenziare che proprio la biologia molecolare ha dato via ad uno spostamento in direzione di una prospettiva sistemica. La biologia molecolare, attraverso la descrizione dei componenti chimici dei sistemi biologici, esaminando il modo in cui funzionano nell’organismo, ha sottolineato proprio le qualità delle entità chimiche che divengono funzionali in un “sistema” biologico globale.
Ad esempio, Watson e Crick (Crick, 1988) si sono accorti fin dall’inizio che avevano scoperto molto di più della descrizione di un’importante molecola biochimica nel loro modello a doppia elica del DNA. Hanno riconosciuto che tale modello era fondamentale per la funzione ereditaria del DNA dell’organismo nel suo complesso.
Un aspetto quindi criticabile del programma riduzionista è che suggerisce che altre forme di spiegazione della realtà sono indegne; la supposta presenza di processi che non possono essere ridotti a componenti più elementari viene considerata ideologicamente come il riflesso di forme di misticismo.
Durante e dopo la seconda guerra mondiale presero avvio due fattori che portarono a considerare le limitazioni del programma riduzionista.
In primo luogo i progressi tecnologici e i progressi in settori come l’ecologia, che coinvolgono cioè sistemi intrinsecamente complessi, ha portato al riconoscimento che alcuni problemi importanti non potevano essere adeguatamente affrontati riducendoli alle loro componenti (Wiener, 1961; Von Bertalanffy, 1968; Von Bronfenbrenner, 1979). Allo stesso tempo, lo sviluppo dei computer ha reso disponibile un nuovo strumento per mezzo del quale le equazioni matematiche molto impegnative generate da questi modelli più complessi potevano essere esplorate; così, nel corso degli anni novanta si fece sempre più spazio l’idea che, per la comprensione del funzionamento di un sistema, lo studio della sua struttura integrata era chiaramente di pari importanza delle sue singole componenti (Von Neumann, 1958; Goldstein, 1972; Stewart e Golubitsky, 1992). Il riconoscimento che i sistemi hanno proprietà che dipendono principalmente dalla loro complessità, combinata con la “potenza” dei computer, ha generato entusiasmo e molti studiosi sono sorti a sostegno di questi punti di vista portando a nuovi e importanti sviluppi della scienza (Wolfram, 2002). Progressivamente è andata così affermandosi la consapevolezza che il programma riduzionista di stampo positivista si rivelava una pretesa fuorviante quale metodo di comprensione della realtà e fiorirono modelli completamente nuovi per lo studio dei sistemi complessi. In questo nuovo fermento di sviluppo teorico, l’emergenza ha costituito un inedito ambito di studio.
La natura dell’emergenza
Le proprietà formali del sistema sono all’origine di ciò che abbiamo chiamato emergenza ma la percezione di quest’ultima è anche condizionata dalla limitatezza delle nostre capacità umane di comprensione e intuizione a livello di funzionamento dei sistemi non lineari.
Le proprietà formali di un sistema riguardano la sua dimensionalità cioè il numero minimo di parametri necessari per descriverlo completamente in modo non ridondante (Thelen e Smith, 1994). Il concetto di dimensione geometrica comporta il numero minimo di parametri necessari per descrive- re adeguatamente la posizione di un punto in uno spazio geometrico. Un piano, per esempio, è bidimensionale nel senso che due parametri sono ne- cessari e sufficienti per specificare ogni punto sul piano stesso. Natural- mente molti altri aspetti della realtà, oltre la posizione fisica, possono esse- re specificati da determinati parametri. Ad esempio l’intensità della mag- giore influenza o il tasso di variazione di una variabile potrebbero essere considerati come parametri che concettualizzano spazi di vario genere (No- va, 2008). Uno dei risultati sorprendenti della topologia, un campo che stu- dia le sottostanti proprietà degli spazi, è che la dimensione di uno spazio determina molte delle sue proprietà più importanti. Si consideri, per esem- pio, se due punti possono essere uniti senza attraversare un determinato ter- zo punto: su una linea, uno spazio unidimensionale, se il terzo punto è compreso tra i primi due, sarà impossibile unirli senza intersecare l’altro punto. Avendo a disposizione una dimensione supplementare la questione diviene completamente diversa: lo stesso problema su di un piano può esse- re risolto per tutti e tre i punti attraverso una curva di collegamento che ver- rà disegnata a fare il giro del punto da evitare. Quando una dimensione vie- ne aggiunta a un sistema, fenomeni qualitativamente nuovi possono emergere semplicemente in virtù di tale cambiamento. Per esempio, nelle reti neurali, l’interposizione di uno strato tra i livelli di input e output crea nuo- ve forme di apprendimento che sono impossibili in un sistema a due strati (Spitzer, 1999).
Un secondo tipo di emergenza che ha a che fare con le proprietà formali dei sistemi, riguarda il rapporto del sistema con gli stati caotici (Gleick, 1987). Nel caos, un sistema diventa completamente imprevedibile perché piccole variazioni arbitrarie nei parametri del sistema determinano cam- biamenti drastici nell’evoluzione a breve termine del sistema stesso. Nei sistemi stabili invece le variazioni nei parametri portano a piccoli cambia- menti dell’evoluzione e questi cambiamenti evolutivi, da un punto di vista qualitativo, sono simili a ciò che si sarebbe verificato senza alcuna modifi- cazione a livello parametrico. Nella teoria dei sistemi complessi, si possono individuare dei sistemi cosiddetti “al limite del caos” che si trovano cioè tra lo stato di caos e la stabilità; essi sono in una condizione in cui le variazioni dei parametri di sistema possono apportare cambiamenti significativi nella sua evoluzione, ma solo un numero limitato di possibili direzioni di cam- biamento sono disponibili; una sorta di bivio o punto di biforcazione in cui una lieve modificazione dei parametri produce cambiamenti significativi dell’evoluzione del sistema in una direzione o in un’altra se i percorsi di- sponibili per il sistema sono a portata di mano. Se immaginiamo un mo- mento e un punto del sistema in cui molte biforcazioni possono essere pos- sibili è probabile che si arrivi alla comparsa di fenomeni emergenti. Tali situazioni si verificano quando il sistema è posto in quello stato che viene definito “al limite del caos” (Holland, 1998).
Tutto ciò ci porta a un terzo tipo di emergenza che sembra violare la re- gola per cui “nulla può essere ottenuto per nulla”. Quando dell’energia en- tra in un sistema, normalmente appaiono nuove strutture nel sistema stesso anche se nessuna di queste è stata progettata appositamente e introdotta con l’energia (Guastello, 2002). Per esempio, quando una pentola piena d’acqua viene riscaldata su di un fornello, anche se il fuoco sotto la pentola è uni- forme, nella pentola si forma una nuova corrente che fa scorrere l’acqua passando dal punto centrale sul fondo della pentola verso l’alto sulla super- ficie dell’acqua e facendola poi discendere aderendo ai lati del contenitore. Si noti che l’apporto di energia, esso stesso destrutturante, porta all’emergere della nuova organizzazione “acqua bollente”. Questo è un esempio di come una struttura può emergere nei sistemi che non sono in condizioni di stabilità senza che ci sia un modello di prescrizione per tale struttura; si assiste cioè ad un’auto-organizzazione.
Infatti, il secondo principio della termodinamica, il quale dice che i sistemi tendono ad aumentare la disorganizzazione, si applica solo nel lungo periodo e per i sistemi che sono vicini all’equilibrio. Per gli esseri viventi possiamo dire che nel lungo periodo “sono tutti morti” ma durante la vita, lontani da uno stato di equilibrio chimico e per azioni di cui vogliamo capi- re qualcosa nel periodo relativamente breve, la seconda legge della termo- dinamica risulta poco utile; lo studio della termodinamica dei sistemi lonta- ni dall’equilibrio dimostra che nuove strutture spesso emergono in tali si- stemi (Glansdorff e Prigogine, 1971; Nicolis e Prigogine, 1977).
Un esempio particolarmente interessante di auto-organizzazione che è pertinente allo sviluppo di sistemi psicologici si vede nelle reti neurali che sono dotate di ingressi casuali ma molto attivi (Spitzer, 1999); reti neurali in cui determinati input producono dei cambiamenti cioè permettono alle reti di “imparare”, vale a dire scoprire relazioni tra ingressi significativi.
Si è osservato che le reti neurali che subiscono determinati input, impa- rano adeguate connessioni tra gli elementi in ingresso. Senza input, le reti non imparano ma, sorprendentemente, dati input anche casuali in modo tale che la rete sia attiva, la rete sviluppa un’organizzazione supplementare, come se stesse costruendo un senso per gli input -“senza senso”- che riceve.
Un’altra forma di emergenza si verifica in seguito a cambiamenti quali- tativi nei sistemi, in risposta alla modificazione di una variabile continua (Strogatz, S. 1994). Il più familiare di questi, già accennato sopra, è il cam- biamento di stato nei sistemi chimici, come quando l’acqua ghiaccia, si scioglie, bolle o condensa. Cambiamenti continui nel parametro della tem- peratura o della pressione portano (dopo che l’equilibrio è stabilito) a nuove forme della sostanza in questione, con qualità distintive che non potevano essere facilmente anticipate. A pressioni ordinarie, nella variazione dello stato dell’acqua da liquida a ghiacciata a 0° C e da liquida a gas (vapore) a 100° C, il cambiamento è brusco: ad una temperatura l’acqua è in una forma, ad un’altra assume una forma differente. Dato il tempo per giungere ad un equilibrio la temperatura determina completamente lo stato dell’acqua. Non ci sono stati intermedi. Nonostante le forze che agiscono tra le moleco- le rimangono esattamente le stesse, e la velocità di movimento delle mole- cole cambia solo leggermente, le molecole stesse, in un cristallo di ghiac- cio, si strutturano in una configurazione significativamente diversa da quel- la dell’acqua. Da molti punti di vista, il ghiaccio, l’acqua “liquida” e il va- pore sono sostanze qualitativamente differenti, con caratteristiche fisiche notevolmente diverse (Strogatz, 1994).
Palombo (1999) ha suggerito che simili cambiamenti possono essere ri- scontrati in ambito psicoanalitico quando osserviamo pazienti che fanno associazioni qualitativamente differenti in momenti diversi del percorso analitico. Un simile accostamento tra sistemi umani e sistemi fisici pare az- zardato ma può avere senso considerarlo come una metafora, interessante e provocatoria, soprattutto per contrastare la difficoltà che normalmente le persone hanno ad anticipare e comprendere il genere di discontinuità che si manifesta a ridosso del comportamento caotico così come si verifica comu- nemente nei sistemi complessi. Intendo dire che ci sono situazioni in cui, nonostante si verifichi un fenomeno emergente, la limitatezza della nostra capacità di comprensione e intuizione a livello di sistemi non lineari, non ne registra la presenza. Nella clinica psicoanalitica, come discuterò poco più avanti, la tendenza a ricercare sempre una continuità nell’evoluzione delle funzioni psicologiche, può interferire con l’osservazione di cambia- menti emergenti, qualora siano effettivamente presenti, proprio perché non esiste un’euristica accettata e condivisa della “discontinuità” nella vita psi- cologica (Galatzer-Levy, 2002).
Questa difficoltà a cogliere i cambiamenti improvvisi tipici dei fenomeni emergenti, riflette anche probabilmente alcune limitazioni del funziona- mento mentale frutto dell’evoluzione del cervello umano in direzione di un maggiore utilizzo di funzioni “razionali” al servizio della comprensione di tali fenomeni (Taerk, 2002). Quali che siano i limiti intrinseci del pensiero umano in questo senso, tali limitazioni sono certamente incrementate nelle società tecnologicamente avanzate dove vengono accuratamente progettati e creati ambienti artificiali che tendono ad annullare ogni discontinuità qua- litativa. Attraverso appropriati controlli, la maggior parte dei dispositivi al nostro servizio, funziona in maniera prevedibile, cioè produce esiti per nul- la sorprendenti. Un esempio, apparentemente banale ma che rende l’idea, sono i moderni ascensori, accuratamente progettati per accelerare e rallen- tare nel modo il più agevole possibile, piuttosto che muoversi bruscamente verso il basso o verso l’alto nel loro spostamento, contrariamente a come dovrebbero fare se l’unico compito fosse quello di consegnare il più rapi- damente possibile il carico alla propria destinazione. L’accurata progetta- zione della corsa fluida dell’ascensore ci dà l’errata impressione che questo rappresenti uno stato fisico prevedibile, quando in realtà non è così. Nei si- stemi complessi, si ha ripetutamente l’esperienza di venire sorpresi. Nuove strutture impreviste emergono da configurazioni in modi altrettanto impre- visti (ibid). Ad esempio, i sistemi così detti di automazione cellulare, o la vita artificiale, sono generati da insiemi di semplici regole. Esaminando isolatamente queste norme, sembrerebbe improbabile che possano generare le strutture complesse e le configurazioni che invece emergono quando queste regole sono stanziate come programmi per computer (Levy, 1992).
Analogamente, l’insieme di Mandelbrot (1982) e le strutture frattali, generati da regole semplici, ben definite, sono una fonte di costante sorpresa e stupore anche per coloro che hanno familiarità con essi. I frattali sono per- tinenti alla psicoanalisi perché la loro esistenza dimostra che strutture di enorme complessità possono essere generate a partire da regole semplici.
I presupposti spiegativi basati sulla causalità lineare possono essere approssimativamente sintetizzati da regole del tipo: “a grandi cause corri- spondono grandi effetti, a piccole cause ne corrispondono di piccoli”; e an- cora: “azioni semplici portano a reazioni semplici, azioni complesse porta- no a reazioni complesse”. Il mondo delle dinamiche non lineare invece ha regole molto diverse: “cause piccole possono dare effetti molto grandi e azioni semplici possono portare a risultati molto complessi”. Un esempio molto conosciuto in cui piccoli cause portano a grandi effetti è “l’effetto farfalla”, in base al quale in determinate circostanze il battito di ali di una farfalla a Sumatra è in grado di determinare se cinque giorni dopo ci sarà una tempesta di neve a Chicago (Stewart, 2002).
Ipotesi implicite errate circa il rapporto di intensità tra causa ed effetto possono portare, e di fatto hanno portato, gli analisti a male interpretare i dati clinici sullo sviluppo.
È interessante confrontare la qualità della sorpresa associata ai fenomeni emergenti con i criteri proposti da Reik (1951) come indicatori del buon andamento dell’analisi. Reik ha osservato che quando l’analisi procede be- ne, sia l’analista che il paziente sono sorpresi dal materiale che viene porta- to in seduta. Reik ha sostenuto che questa sorpresa fosse, sia un indicatore di autenticità del materiale (cioè, che il paziente non veniva indottrinato dall’analista), sia un indicatore della comparsa nella consapevolezza di ma- teriale precedentemente inconscio. I suoi numerosi esempi clinici colpisco- no il lettore contemporaneo per la loro attendibilità. Comunque, nel conte- sto della discussione in corso, ci si potrebbe chiedere se questa qualità di sorpresa può, in alcune occasioni, derivare dalla comparsa di fenomeni emergenti all’interno della situazione psicoanalitica.
Questo apre la questione di come e se è possibile differenziare tra feno- meni realmente emergenti e situazioni in cui qualcosa, in precedenza pre- sente ma al di fuori della consapevolezza, diviene presente. L’emergenza costituirebbe un modo interessante di concettualizzare questi fenomeni che tanto spesso ci capita di affrontare durante un’analisi. Piuttosto che fare ri- corso unicamente alla metafora del contenuto psicologico nascosto o a ca- tegorizzazioni che rimandano ai costrutti dei “pensieri non pensati” di ma- trice Bioniana (Bion, 1983; Stein, 1999), o ancora all’”esperienza non for- mulata” di Donnel Stern (2003), si potrebbe considerare che esistano due percorsi indipendenti e che entrambi comportino un senso di sorpresa inattesa entrando nella coscienza, dando all’emergenza il significato peculiare che qui stiamo discutendo. In questo modo potremmo ottenere un quadro più ricco circa il funzionamento e lo sviluppo psicologico.
Tuttavia non possiamo evitare di riconoscere che l’ipotesi che ci possa- no essere delle vere discontinuità nell’evoluzione delle funzioni psicologi- che, teorizzabili come qualità emergenti, risulterebbe problematica perché metterebbe seriamente in discussione il più importante dispositivo attraver- so il quale Freud e altri psicoanalisti hanno compreso il funzionamento mentale. Intendo dire che l’idea che evidenti discontinuità nelle funzioni psicologiche rappresentino la dissimulazione di un significato latente era, e rimane, un potente mezzo per lo sviluppo della psicoanalisi e per la pratica clinica (Galatzer-Levy, 2002; Tyson e Tyson, 1990). È pertanto utile esplo- rare il rapporto tra questa idea e il concetto di emergenza qui proposto.
Freud e il problema della razionalità
Il confronto di Freud con il problema della razionalità fu uno degli sti- moli che diede origine alla psicoanalisi. L’idea che l’azione umana potesse essere spiegata sulla base della “ragione” ha dominato il pensiero intellet- tuale dall’Illuminismo fino alla fine del XIX secolo e il comportamento che non poteva essere compreso in termini razionali veniva considerato come deviante, la conseguenza del fallimento personale o della malattia.
Freud ha affrontato il problema manifesto dell’irrazionalità lungo tre di- verse direttrici.
In primo luogo, ha sostenuto che le azioni umane che appaiono come ir- razionali non sono il risultato di qualche fallimento fondamentale della ra- zionalità ma, piuttosto, rappresentano aspetti del processo razionale che sono stati esclusi dalla consapevolezza a causa dell’ansia che deriverebbe se così non fosse. In secondo luogo, che la ragione prende forme che sono più varie di quanto suggerito dall’ordinaria esperienza dei processi di riflessio- ne espliciti. In particolare, il ragionamento può coinvolgere il “processo primario”, che ha una sua logica ma regole diverse da quelle comunemente accettate nel pensiero cosciente. Infine, anche quei processi che sembrano essere l’esito di un raziocinio condiviso, spesso, in realtà, sono il risultato di una logica che è al di fuori della consapevolezza e che segue regole dif- ferenti da quelle che sono dichiarate. Il comportamento apparentemente ir- razionale è in continuità con un comportamento razionale – il comporta- mento irrazionale ha le sue ragioni – è un comportamento motivato a mi- sconoscere e camuffare processi che sarebbero etichettati come irrazionali (Tyson e Tyson, 1990).
La scoperta di Freud della pervasività di processi non razionali alla base del funzionamento mentale ha portato al tentativo di sviluppare una teoria complessiva sul funzionamento psicologico e sullo sviluppo. Freud e i suoi seguaci, come discusso in precedenza, hanno inteso lo sviluppo come il ve- rificarsi di un sequenziale dispiegarsi di passaggi che portano verso una struttura definitiva e in ciò vediamo all’opera quell’apriori epistemico della razionalità che in qualche modo Freud aveva così magistralmente criticato e demolito ma che poi è rientrato inevitabilmente, in quanto apriori episte- mico della sua epoca, quale matrice di fondo del suo pensiero teorico, che ad esempio esclude la possibilità di concettualizzare salti evolutivi sorpren- denti che considerino cioè l’emergenza quale costrutto ammissibile nello spiegare “razionalmente” lo sviluppo. Anche se Freud in verità non ha de- scritto il meccanismo con cui ciò si verificherebbe, nella sua concettualiz- zazione era implicita l’idea che un processo pre-programmato avrebbe por- tato ad una struttura definitiva matura. E tale struttura, anche se diversa da individuo a individuo, doveva essere fondamentalmente comune a tutti i soggetti “normali”; una deviazione da questa normalità fondamentale avrebbe comportato patologia. Il principio organizzativo fondamentale di questo sviluppo, nell’ottica di Freud era insito nelle vicissitudini pulsionali dalle fasi libidiche delineate nei “Tre Saggi” (Freud, 1905). La definizione delle strutture della psiche da parte di Freud lo ha portato a descrivere come si verificava lo sviluppo di queste strutture in concerto con le linee libidiche (Freud, 1922).
Anna Freud arrivò a credere che mentre le varie strutture della psiche seguivano una sequenza normativa, il funzionamento complessivo dell’in- dividuo era modellato dall’interazione di diverse sequenze indipendenti (li- nee evolutive). La patologia sarebbe potuta derivare non solo dalle interfe- renze globali che risultavano da disturbi della sequenza di sviluppo libidi- nale, ma anche dalle incongruenze tra le linee evolutive essenzialmente in- dipendenti da lei descritte. Eppure, anche nell’ambito del modello di Anna Freud, lo sviluppo normale è caratterizzato da sequenze prevedibili che si verificano in modo puntuale e la patologia è generata quando queste se- quenze pre-programmate non avvengono nella corretta relazione reciproca (Freud, 1965).
Questa formulazione, come ho già avuto modo di dire in apertura di questo scritto, si fondava sulle idee relative allo sviluppo biologico che era- no venute alla luce in modo così impressionante durante la formazione me- dica di Freud all’inizio della sua carriera e ha continuato ad essere il tema dominante nello studio dello sviluppo biologico.
In particolare, la regolarità della comparsa di strutture viene presa come indicazione che il loro emergere sia il risultato di una sequenza di passaggi evolutivi specificati nel genoma.
Esteso alla psicologia, questo modello porta con sé delle naturali conse- guenze anche per la psicoterapia. Se la psicopatologia rappresenta un difet- to nello sviluppo di uno schema predeterminato, volendo intervenire a quel livello, in senso ripartivo o anche solo di gestione, si hanno a disposizione due possibilità. La prima, qualora possibile, sarebbe quella di far procedere a ritroso lo sviluppo fino ad arrivare al punto in cui ha avuto origine il pro- blema, quindi riparare l’anomalia e poi consentire allo sviluppo, seguendo- lo passo dopo passo, secondo la “giusta sequenza”, di riprendere da quel punto; o, anche, dopo aver riparato l’anomalia e supponendo che il succes- sivo sviluppo non sia stato distorto eccessivamente, consentire semplicemente al paziente, dopo la riparazione, di procedere naturalmente da solo nel suo percorso. In alternativa, se per qualsiasi motivo la “riparazione” fosse risultata fondamentalmente impossibile, poteva essere fornita una sor- ta di “protesi” sostitutiva della funzione persa, consentendo al paziente di ottenere, non tanto il funzionamento ideale ma quanto meno il miglioramento della funzione, a dispetto della continua presenza della difficoltà sottostante. Questa, ovviamente, è la distinzione tra psicoanalisi e suggestione originariamente introdotta da Freud e la base per la netta distinzione tra le due procedure (Freud, 1915-17). I successori di Freud e non solo la figlia Anna, hanno dato notevoli impulsi ad ulteriori studi e approfondimenti in ordine alla comprensione dello sviluppo psicologico e diversi modelli vennero teorizzati sulla crescita psicologica del piccolo dell’uomo; ma uno sguardo complessivo su questi modelli, rispetto al criterio che presiede alla scansione delle varie fasi, mette in luce che essi possono essere considerati – ad eccezione del modello di Anna Freud – variazioni dello schema di sviluppo di Abraham (1924). In relazione a questo aspetto, anche analisti, per certi versi innovatori come Erikson (1950), Gedo e Goldberg (1973), pren- dono a prestito tale criterio: di fatto nei loro modelli lo sviluppo è descritto come il verificarsi di una serie ordinata di tappe e passaggi, approssimati- vamente correlati all’età del soggetto, all’interno di uno schema evolutivo secondo il quale la raggiunta realizzazione di ogni passo è condizione necessaria per il conseguimento del passaggio successivo.
Ne consegue che i presupposti di ogni passaggio evolutivo sono reperi- bili e ben individuabili nelle “fasi” precedenti ed anzi, in una concezione di sviluppo sequenziale, è proprio la ricerca e l’implemento di essi che costi- tuisce il substrato per favorire e dare l’avvio allo sviluppo stesso, al “salto” evolutivo. Quindi si parte dal presupposto che tali prerequisiti, riferibili ad ogni fase sequenziale, siano ben individuabili e l’assenza di essi è conside- rata indice di un mancato o inconsistente sviluppo. Ad esempio il mancato superamento della fase anale nella sua espressione sadica (Abraham, 1924), si dovrà interpretare anche come difficoltà al raggiungimento e all’instau- razione completa della fase fallica e quindi come potenziale rischio di regressione o fissazione. Da un vertice apparentemente distante ma che di fat- to condivide la medesima impostazione epistemologica della sequenzialità, nella dinamica Mahleriana (Mahler, 1975) della separazione individuazio- ne, la “sottofase di sperimentazione” non sarà possibile se non dopo il supe- ramento completo della “sottofase di differenziazione”: e di quest’ultima devono essere rintracciati gli indici che ne testimonino inequivocabilmente il raggiungimento effettivo. Ad esempio, verso i 5 mesi di vita, si deve in- dividuare nel bambino una maggiore capacità di percezione dell’esterno con un graduale sviluppo dei sensi, accompagnato dalla capacità di essere sempre attento durante la veglia. Inoltre il neonato deve essere in grado di accorgersi della presenza o assenza della madre mostrando di avere fiducia nel suo ritorno; tutto ciò deve essere accompagnato da alcuni comporta- menti molto concreti e ben individuabili che costituisco essi stessi la prova del raggiungimento e della stabilizzazione di questa sottofase, come, ad esempio, tirare il naso, le orecchie e i capelli della madre. Solo a questo punto potrà avere luogo la sottofase di sperimentazione in cui il bambino esprimerà alcune peculiarità che differenziano qualitativamente dalla con- dizione precedente e marcano il passaggio evolutivo alla fase successiva, come ad esempio il fatto che sarà molto preso dalle funzioni motorie e a tratti mostrerà un relativo disinteresse verso la madre. Ma ciò che qui mi preme evidenziare è che, perché una fase possa considerarsi instaurata, devono essere identificabili i nessi causali lineari e diretti tra le sue caratteri- stiche principali e gli elementi precedenti, ben individuabili e identificabili, che sono precondizioni necessarie e imprescindibili al suo instaurarsi cioè all’instaurarsi del “nuovo”, di ciò che prima non c’era e ad un certo punto appare; e così via di seguito per ogni fase successiva o, a ritroso, precedente. È evidente che simili questioni, come già detto, non potevano restare confinate all’interno della pura teoria. Anche successivamente, al di là della differenziazione iniziale delle due procedure istituite da Freud sopra evi- denziate, la questione centrale della clinica analitica sarebbe andata formu- landosi nei seguenti termini: nella prassi terapeutica, a partire dal modello di sviluppo assunto come referente dall’analista, quale modo di procedere è utile a “muovere” il paziente da una posizione più “immatura” e disadattiva ad una posizione più “matura” e adattiva? In passato molti analisti lavora- vano ritenendo che i vari passaggi dello sviluppo coincidessero con precisi e ben definiti eventi che si ripetevano nel processo analitico con l’adulto, tanto da essere usati come cartine di tornasole del buon procedere del trat- tamento. Secondo la concezione classica, per curare veramente, il tratta- mento avrebbe dovuto annullare gli effetti del mancato sviluppo, preferi- bilmente dando vita con cura e sensibilità ad una situazione o ad un conte- sto che si avvicinasse il più possibile ad uno sviluppo “ideale” procedente in assenza di disturbi. Benché alcuni clinici mantengano ancora questa atti- tudine, la tendenza è diminuita nel corso del tempo e la maggior parte degli analisti è sempre meno disposta a far rientrare nelle teorie di riferimento le “vite dei loro pazienti”. Nonostante ciò è inevitabile che noi continuiamo ad ascoltare i racconti dei pazienti filtrandoli attraverso le teorie evolutive cui aderiamo o, quanto meno, attraverso riferimenti generali ad un implicito concetto di sviluppo (Milanesi e De Robertis, 2013).
Nuove prospettive
Prendere in seria considerazione il concetto di emergenza apre prospet- tive nuove e molto diversificate sulla comprensione dello sviluppo e del funzionamento psicologico con conseguenti implicazioni significative an- che per la tecnica psicoanalitica, tra cui ad esempio una diversa visione sul- l’importanza da dare a ciò che i pazienti portano in seduta (Leffert, 2008).
Ho illustrato che dal punto di vista di Freud e della psicoanalisi ortodos- sa, la crescita psichica viene spiegata come il risultato della stratificazione passo dopo passo di lievi modificazioni, passando da una configurazione all’altra, per arrivare a creare una strutturazione psicologica finale.
I grandi cambiamenti di comportamento e nelle funzioni psichiche ven- gono solitamente considerati, dalla maggior parte degli psicoanalisti, come “epifenomeni”. L’analista postula che sotto l’evidente cambiamento repen- tino, prova di una riorganizzazione psichica, ci sia stata una trasformazione continua e ordinata, di cui il cambiamento stesso è l’espressione ultima.
L’unica cosa che si può pensare cambi improvvisamente è il comportamento manifesto o qualcosa a livello della coscienza; appaiono dei “pensie- ri in precedenza non pensati” e non “formulati”.
Questo assunto ci porta a trascurare quelle circostanze che possono “realmente” implicare dei bruschi cambiamenti senza doverli intendere come epifenomeni.
Eventi di questo genere sono ben documentati a proposito dello sviluppo psicologico generale. Ad esempio, Thelen e Smith (1994) dimostrano che lo schema motorio del camminare ha dei precursori e la capacità di camminare non esita da un epigenetico dispiegarsi di questi precursori, ma è una proprietà emergente dall’ingaggio del neonato con essi.
A volte i pazienti riportano dei cambiamenti drammatici nel funziona- mento psicologico e analogamente gli analisti osservano che tali cambia- menti spesso si verificano dopo un lungo periodo di apparente riposo nel lavoro analitico (Palombo, 1999).
Piuttosto che ragionare in termini della presunta esistenza di una sotto- stante continuità, e quindi, per inciso, restando scettici circa la profondità del cambiamento apparente, gli analisti potrebbero considerare che la tra- sformazione rifletta in realtà un aspetto nuovo, “emergente” nel soggetto.
Il cambiamento potrebbe essere cioè il prodotto di un periodo di lavoro svolto “al limite del caos” che ha impegnato il paziente in una condizione da cui sarebbe davvero potuta emergere una nuova configurazione. Se l’analista riesce ad accettare il senso di sorpresa che come ho detto ogni es- sere umano prova a fronte dei fenomeni emergenti a causa di un’intrinseca difficoltà di prevederne lo sviluppo, questo spostamento di punto di vista potrebbe portare l’analista, non tanto a ricercare i nessi causali diretti e li- neari tra le condizioni precedenti al cambiamento e quelle successive – vale a dire rintracciare le prove dei motivi e dei mezzi con cui il paziente ha “tentato di occultare” il presunto reale processo di cambiamento a sé stesso e all’analista, o ancora, magari non credendo a ciò che “vede”, interpretan- dolo come difesa – quanto invece a individuare prove di conferma dell’emergenza in sé, accogliendo questa possibilità e casomai analizzando le condizioni che hanno consentito al paziente di attuare quel salto evoluti- vo.
Il punto di vista evoluzionistico. L’evoluzione punteggiata: da Darwin a Gould ed Eldridge
La più grande indagine sulla comparsa di strutture complesse e diversi- ficate senza spiegarle in termini creazionisti, fu opera di Darwin (1859), che argomentò come la complessità e la diversità della vita siano conse- guenza della selezione naturale sulle caratteristiche ereditarie che sono va- riabili. Tutta la natura, nelle sue infinite manifestazioni, risulta dall’azione di un unico grande agente evolutivo, la selezione naturale, che opera su un unico substrato fondamentale, il corredo genetico (Pievani, 2001). Possia- mo individuare anche in questa impostazione tipicamente darwinistica e post-darwinistica, tra le pieghe del discorso, un modo di pensare che inter- preta l’evoluzione come azione lineare d’informazioni provenienti dall’esterno, cioè di “istruzioni” dettate dall’ambiente che agiscono sul corredo genetico producendo lentamente e progressivamente organismi come frutto del processo adattativo. Se a questo punto viene sommato, come di fatto avvenne, il concetto a fondamento biologico ed embriologico che l’onto- genesi ricapitola la filogenesi (Gould, 1977), il cerchio si chiude e l’intero sviluppo umano nel ciclo di vita viene spiegato, come illustrato in prece- denza, in termini di consequenzialità causale lineare di fasi prestabilite e ben definite.
In base alle tesi di Gould ed Eldridge (1972) la lenta e graduale trasfor- mazione degli esseri viventi, sostenuta da Darwin in poi, non trovava ri- scontro nella documentazione fossile, se non in rarissimi casi. Secondo questi studiosi il processo evolutivo sarebbe stato caratterizzato da lunghis- simi periodi di stasi e da rapidi e improvvisi episodi di cambiamento. Nella teoria dell’”equilibrio punteggiato” di questi autori emergeva una visione della storia passata, dal ritmo non uniforme e caratterizzato da improvvisi cambiamenti strutturali. La formazione di nuove specie non era il risultato di un lungo e graduale processo inarrestabile ma rappresentava un episodio fortuito e contingente nella storia della vita. Il ritmo dell’evoluzione, nella sua formulazione matura, è lento e graduale, ma può variare tra una specie e l’altra. Proprio questo schema irregolare, caratterizzato da picchi di cam- biamento non uniformemente distribuiti lungo la storia della vita, è indice di un nuovo modo di intendere il processo evolutivo. L’approccio puntuazionista di Eldredge e Gould modifica la concezione del cambiamento ambientale e dei suoi rapporti con l’evoluzione psico/biologica: una visione della storia evolutiva episodica e discontinua e non uniforme e graduale. Secondo la teoria degli equilibri punteggiati, a livello macroevolutivo delle tendenze, le specie esistenti abitualmente non incorrono in cambiamenti fe- notipici sostanziali per un periodo di tempo che può comprendere milioni di anni (stasi) e la gran parte del cambiamento è invece concentrata negli eventi istantanei, dal punto di vista geologico, della speciazione per bifor- cazione (Gould, 2007) e l’indagine stratigrafica può dimostrare tali passag- gi evolutivi. La natura del cambiamento è quindi un graduale processo, prevedibile e causalmente determinabile o piuttosto esito di fenomeni “emegenti”, difficili, imprevedibili, rapidi e improvvisi? Dopo questa sinte- tica esposizione dei fondamenti della teoria punteggiata, sorge spontanea- mente l’esigenza di comparare la macroevoluzione con lo sviluppo psicolo- gico del singolo essere umano basato sul concetto di emergenza. Il fenome- no dell’emergenza mi pare simile, nella sua dinamica strutturale, a quello dell’evoluzione punteggiata, cioè qualcosa emerge dal niente nel senso che il nesso causale tra l’emergente e ciò che c’era prima non è diretto e lineare e per ciò è inaspettato. L’accorpamento di alcune parti, il loro essere state “mosse” cioè rese attive e chissà cos’altro, da origine al nuovo, all’emer- gente. Penso si possa sostenere che siamo in presenza di un’impossibilità a reperire i nessi causali che hanno dato origine al cambiamento proprio per- ché qualcosa di nuovo è emerso. Possiamo forse dire cosa c’era prima, cosa si è mosso, ma l’emergere della condizione attuale e della “realtà” attuale resta quasi inspiegabile; certamente constatabile quale espressione data del- la totalità del sistema nel suo complesso ma non rintracciabile causalmente in senso lineare nei suoi precedenti cioè nelle singole parti compositorie. Questa è l’essenza del fenomeno emergente: ciò che emerge è più della somma delle parti da cui si è originato. A proposito dell’emergere della coscienza nell’essere umano, da un punto di vista filogenetico, Tattersall (1998) sostiene che la comparsa degli indizi tipici di un’intelligenza simbo- lica e cosciente sembra avvenire rapidamente, nell’epoca che chiamiamo Paleolitico superiore (intorno a 45.000-40.000 anni fa), nel punto terminale di un lunghissimo processo di espansione del cervello iniziato quasi due milioni di anni prima; emerge improvvisamente, dopo una lunga storia di trasformazioni anatomiche che non avevano dato fino a quel momento al- cuna risultanza di rilievo in termini di funzioni cognitive. Il pensiero di questo studioso è che ciò che è stato sinteticamente definito “competenze tipicamente umane” non deriva semplicemente come estrapolazione dalle più antiche tendenze della nostra linea evolutiva ma si tratta di qualcosa di più simile a una “proprietà emergente”, per mezzo della quale una nuova combinazione di caratteristiche produce casualmente un risultato del tutto inatteso. “È certamente la natura emergente del nostro organo di controllo e delle capacità da esso derivate a spingere oggi l’uomo a riflettere su se stes- so” (Tattersall, 1998, p. 170). È allora probabile che nella storia naturale della coscienza e delle altre funzioni superiori dell’essere umano vi sia gra- dualità (anatomica) e discontinuità (funzionale): due tracciati evolutivi par- zialmente indipendenti. Il primo è un effetto collaterale di una mutazione genetica, fissata poi dalla selezione naturale, il secondo è un’emergenza evolutiva repentina, una riorganizzazione funzionale a partire dall’impiego creativo di strutture già formate. Questa “emergenza” è stata chiamata nel 1982, dai paleontologi Gould e Vrba, “exaptation” (Gould, Vrba, 1982), intendendo con essa la cooptazione di una caratteristica biologica, prodotta originariamente per una qualche funzione primaria in un certo contesto o per un effetto collaterale privo di qualsiasi funzione, per un fine evolutivo diverso in un altro contesto. Anziché essere macchine per geni plasmate dalla selezione naturale, gli organismi manifestano spesso la capacità di riorganizzare opportunisticamente i propri vincoli strutturali interni e di trascendere se stessi trasformando ciò che hanno a disposizione. La storia na- turale delle funzioni cognitive superiori come la coscienza è forse una serie di exaptation, una storia di possibilità sempre nuove piuttosto che di adat- tamenti necessari. L’alta frequenza dei fenomeni di exaptation demolisce l’idea di un “progetto” o “programma” inscritto nella natura. L’evoluzione diventa il regno del possibile. Le strutture dell’intelligenza sarebbero, in questo senso, il frutto di una deriva evolutiva singolare, l’esito di una se- quenza di eventi contingenti e irreversibili, un’emergenza tardiva e im- provvisa. Sulla traccia di questa sintetica esposizione di quella che definirei un’avanguardia del pensiero evoluzionista, non posso mancare di fare rife- rimento anche ad Oyama (2000), non solo o non tanto per evidenziare il suo apporto quale evoluzionista ma soprattutto per trarre dal suo pensiero un’indicazione generale e di maggiore portata che spinge in modo originale ad osservare e conoscere i cambiamenti nella realtà in modo fondamental- mente diverso e cioè secondo nuovi orizzonti epistemici. Lo sguardo di questa Autrice, attraverso la sua teorizzazione sull’evoluzione, aiuta a supe- rare l’interpretazione causale lineare e l’impostazione che concerne il duali- smo di interno-esterno. Sebbene i biologi da tempo hanno codificato lo svi- luppo degli organismi nel loro ambiente in termini di dialettica tra auto ed eco-organizzazione, questi due focus hanno subito storicamente diverse let- ture che, a seconda dei periodi storici, hanno accentuato dicotomicamente ora un versante ora l’altro. La seguente citazione di Oyama (1998) sintetiz- za mirabilmente il tentativo di superare la dicotomia tra “auto ed eco” per entrare in un ordine di idee che le consideri come due facce della stessa medaglia, originarie della stessa matrice: (…) la revisione operata dalla DST (Teoria evolutiva dei sistemi) non consiste nell’affermare che tutto interagisce con tutto, né che tutto è sempre soggetto ad altera- zione, ma consiste nel riconoscere: (1) che in ogni momento le influenze e i vincoli esercitati sul sistema sono sia funzione degli stimoli presenti che il risultato di stimoli, risposte e integrazioni passate, e che il significato di un componente non è mai dato a priori ma è determinato contingentemente nello svolgersi stesso delle interazioni; (2) che sono gli organismi a organizzare e costruire l’ambiente circostante così come sono da questo “organizzati” e “costruiti” (Oyama, 1998).
A sostegno di quanto detto in merito al superamento dei dualismi, Pie- vani (2001) scrive che “il principale obiettivo polemico di Oyama è la per- sistenza di interpretazioni dualistiche nello studio dei processi di sviluppo: a suo avviso, le distinzioni fra il dominio biologico e il dominio culturale (come fra mente e natura) si fondano su assunzioni discutibili circa i mec- canismi che producono il cambiamento nei sistemi in evoluzione. La sua è una visione dell’intreccio e della molteplicità, una visione che identifica l’identità con l’intersezione e la miscela d’influenze eterogenee. Anche la distinzione più sottile fra un’origine interna di tipo genetico e un’origine esterna di tipo ambientale rivela, secondo Oyama, un debito residuo verso il dualismo. La sua visione radicale dello sviluppo esclude che si possa addi- rittura parlare di entità separate che “interagiscono” nei processi di sviluppo, perché l’interazione così intesa presupporrebbe una precedente distin- zione e indipendenza delle entità coinvolte”.
Un altro modello di sviluppo, lo sviluppo contestuale
Quali importanti cambiamenti nella visione dello sviluppo ontologico conseguono da quanto finora espresso?
Nuove concezioni sullo sviluppo psicologico del bambino cominciarono a farsi strada grazie soprattutto all’Infant Research (Beebe e Stern, 1977; Beebe e Sloate, 1982; Tronick, 1998; Sander, 2007; Carli e Rodini, 2008) che ha modificato in modo radicale le conoscenze sul mondo infantile (La- velli, 2007). Nell’area psicoanalitica i primi cambiamenti sulla concezione dello sviluppo sono avvenuti in seguito all’adozione di un’inedita procedu- ra di ricerca che non si è limitata quasi esclusivamente all’uso del metodo inferenziale – come avveniva precedentemente attraverso l’impiego di casi clinici, con il risultato di inferire i dati sul neonato da campioni di pazienti adulti (o anche di bambini più grandi) – ma che ha indagato con un metodo diretto la vita del bambino dalla nascita.
È emerso un neonato il cui sviluppo procede anche in modo discontinuo e in cui le fasi evolutive sono sovrapposte per strati e non concepite come stadi critici ad esclusione reciproca. I problemi con i quali il bambino si confronta in un certo periodo non vengono radicalmente risolti per poi scomparire definitivamente oppure non rimangono irrisolti per poi trasfor- marsi in ineluttabili punti di “fissazione” o “regressione”.
Un modello dunque, sofisticato e complesso che si inserisce nel più va- sto panorama delle teorie dei sistemi dinamici non lineari (Thelen e Smith, 1994) e che spalanca un altro punto di vista epistemico e demolisce i co- strutti che vedono lo sviluppo come terminabile dopo una successione preordinata di specifiche fasi circoscritte e precisate nel corso del tempo e quindi in base all’età.
Grazie agli studi dell’Infant Research, a quelli sull’emergenza e a quelli evoluzionistici di Gould, Eldredge, Vrba e di Oyama “sull’interazione non dicotomica”, possiamo pensare allo sviluppo psicologico secondo nuove coordinate concettuali ma c’è però un ulteriore passo in avanti da compiere.
La scelta epistemica di Oyama (2000) ha introdotto una nuova ottica sul di- venire dell’evoluzione, ma lo ha fatto conservando l’impostazione ampia situata al livello di criteri generali. Esiste però un livello diverso all’interno dei criteri che reggono l’evoluzione in generale ed è il divenire specifico del particolare. È questo un ulteriore passaggio cui la “scienza” ha gioco- forza da sottostare. È necessario andare oltre la ricerca di “leggi” universali fondate sulla selezione delle variabili in gioco (Minolli, 2015).
Scrive Ceruti (1996) che, la riconsiderazione del soggetto e una nuova interpretazione delle leggi, convergono nel prospettare un mutamento che si declina in un atteggiamento nuovo assunto dalla scienza “rispetto a que- stioni quali il rapporto fra il generale e il particolare, fra le regole osserva- bili in natura e la varietà, ricchezza e singolarità degli eventi”. E ancora, i processi evolutivi dipendono sempre da un’interazione irrisolvibile fra i meccanismi generali che operano come vincoli – le “leggi” – e la varietà, l’individualità, la singolarità spazio-temporale degli eventi.
Come sostiene Minolli (2009), certamente l’interazione non è “irrisolvibile”, ma solo difficile da coniugare visti i presupposti dati per scontati del sapere storico. Non vi è dubbio però che il passaggio dai meccanismi gene- rali alla singolarità è problematica. Il problema è come di fatto si possa fare “scienza” con l’evento singolo, individuale, particolare. Siamo abituati a ritenere che “scientifico” è solo un sapere universale, valido per sempre, ripetibile e prevedibile. Per questo, inevitabilmente, il metodo seleziona le variabili in gioco in modo tale da arrivare a stabilire delle “leggi” universa- li. Volendo però guardare oltre è possibile andare fino in fondo a quanto sostiene la Stengers (2007) e cioè che il comportamento dell’individuo non ripete la specie poiché ciascuno costituisce una costruzione singolare che integra i vincoli genetici e le circostanze di una vita. E, correlativamente, la selezione selettiva non poggia sull’individuo, ma sull’individuo nel suo gruppo, nel suo ambiente. Non si tratta tanto di sapere che cosa un indivi- duo “trarrà partito” dal suo gruppo, ma che cosa un gruppo porta all’ontogenesi dell’individuo, che cosa gli farà apprendere e gli farà cono- scere. Di conseguenza, l’individuo appare come un fascio di temporalità articolate e non può essere compreso soltanto in funzione della “memoria della specie”, che è tradotta dai vincoli genetici, ma anche come memoria delle proprie esperienze, al limite perfino, per gli uomini, memoria definiti- vamente multipla di tutti i passati di cui siamo eredi e ai quali siamo sensibili. I vincoli genetici, come la nozione di specie, assumono qui un senso totalmente astratto in rapporto alla nozioni di individuo concreto (Minolli, 2015).
Ritengo che in questo complesso divenire il fenomeno dell’emergenza giochi un ruolo significativo e in particolare possa fungere da ponte nel passaggio dal “generale” al “particolare”, cioè nello spostare il focus sul singolo individuo nella sua evoluzione di soggetto nel suo contesto di vita.
Conclusione
Già Winnicott (1965) e Benedek (1959; Anthony e Benedek, 1970) ave- vano in qualche modo dimostrato che il normale sviluppo dell’essere uma- no poteva essere concettualizzato come risultante dell’influenza reciproca di bambino e caretaker. Racker (1968) aveva dimostrato che il controtrans- fert, precedentemente pensato come ostacolo al processo analitico, non solo era inevitabile, ma, correttamente utilizzato, avrebbe potuto facilitare il la- voro analitico. Negli ultimi anni molti colleghi hanno fatto propria la posi- zione teorica, che è inoltre indubbiamente epistemologica, anche se in gradi diversi, che l’analisi non possa prescindere dal “peso” che esercita l’influenza biunivoca tra l’analista e l’analizzando e che quindi la “diade analitica” possa entrare a pieno titolo nel campo psicoanalitico consideran- dola come “un’emergenza” del sistema analitico stesso3. Vorrei solo accen- nare che le proprietà della diade emergente derivano in parte dalla sua strut- tura formale. Se pensiamo che ogni partecipante al contesto analitico com- porti una soggettualità che può essere descritta in un certo numero di di- mensioni, diciamo n, l’interazione sistemica di due soggettualità qualsiasi può essere descritta come avente una dimensione 2n. In precedenza ho ac- cennato alle conseguenze che possono derivare all’interno di un sistema in seguito all’apportazione di dimensioni supplementari e cioè come questo comporti nuove possibilità di cambiamento: i possibili percorsi tra due pun- ti in un sistema a 1 dimensioni vengono aumentati se il sistema si unisce ad un altro così da produrre un nuovo sistema globale che implica 2 dimensio- ni. Dal punto di vista di un solo componente del sistema, tali cambiamenti potrebbero sostanziarsi in qualcosa di simile a variazioni improvvise e a una marcata discontinuità anche se nel sistema di maggiori dimensioni la transizione potrebbe apparire regolare e continua. Immaginiamo cosa possa comportare nelle analisi di coppia o di coppia genitore-bambino o ancora della famiglia intera, la complessificazione sistemica dovuta all’introduzione di nuove dimensioni. Certamente questo rimane un ambito di studio aperto e a mio avviso potenzialmente estremamente fecondo.
Il concetto di emergenza e le idee ad esso correlate provenienti dalla teoria dei sistemi complessi e non lineari, costituiscono un’alternativa alla visione dell’evoluzione pre-progammata e suggeriscono che il tipo di svi- luppo che ci si dovrebbe aspettare di vedere, quando le cose procedono be- ne, sia tutt’altro che regolare. Piuttosto che essere costante e continuo po- trebbe comportare periodi di rapido cambiamento e periodi in cui poco sembra accadere. Quello che ci si aspetterebbe di vedere in termini di con- tinuità è che l’individuo sia impegnato costantemente in profondità con i problemi della sua crescita soggettuale e che le possibilità di venire ingag- giato in qualcosa di nuovo siano sempre aperte; è cioè seriamente ipotizza- bile che l’emergenza possa esprimersi naturalmente lungo l’intero arco di vita e non sia limitata ad un solo periodo anche se in talune fasi è probabile che si assista più facilmente a fenomeni emergenti.
Le situazioni che ora potremmo classificare come emergenti, in passato, sono state considerate come epifenomeni e spiegate in base a qualche pro- cesso sottostante, dove risiedevano le leggi ordinarie di continuità del cam- biamento. Senza nulla togliere alla portata che questa concezione ha avuto per il progresso della psicoanalisi, l’idea che qualcosa possa emergere dallo stato di un sistema complesso suggerisce, tuttavia, la possibilità che ciò che prima era pensato essere un epifenomeno costituisca un reale cambiamento non riducibile ad una serie di passaggi ordinati e semplici o facendo riferi- mento a fattori nascosti ma invita ad un apprezzamento dei fenomeni emer- genti per ciò che sono di diritto. Si apre la strada agli analisti per considera- re attentamente questi eventi quando si verificano, scoraggiando le letture distorsive che spesso si verificano quando si vuole ridurli a delle continuità sottostanti. La tecnica analitica dovrebbe adeguarsi nella direzione di facili- tare i fenomeni potenzialmente emergenti, attraverso una modificazione del setting e della tecnica che preveda situazioni in cui possano verificarsi tali trasformazioni. All’ambiente e al contesto dovrebbe essere data molta più importanza, sapendo che l’esplorazione di ciò che accade “al limite del caos” è il modo attraverso cui prende forma l’emergenza e il normale svi- luppo ed è importante non interrompere tali processi. In questo senso è be- ne sapere che l’insistenza sulla costruzione di una descrizione apparente- mente coerente (l’interpretazione) che giustifichi agli occhi dell’analista il presunto processo sottostante un manifesto e improvviso cambiamento può, in realtà, interferire con esso e pregiudicarlo.
Infine un brevissimo accenno al perenne problema dello scopo della psi- coanalisi (Sandler e Dreher, 1996). Anna Freud propose che gli obiettivi dell’analisi dei bambini dovevano essere la ripresa dello sviluppo verso una configurazione matura della personalità. Alla luce del concetto di emergen- za, se assumiamo che a livello psichico qualcosa possa comparire dal nulla e in considerazione dei processi di exaptation per cui riteniamo che le fun- zioni mentali superiori non siano rigidamente chiuse e limitate nelle loro potenzialità dal substrato genetico anatomico, è gioco forza ritenere che lo sviluppo sia un processo permanente che non può più essere considerato come volto in direzione di un quadro finale di maturità ideale: piuttosto, è il processo in sé l’obiettivo. La posizione di Anna Freud va dunque rivista, considerando l’analisi come il luogo che possa consentire la ripresa dell’evoluzione psichica soggettuale lungo tutto il life span. Il concetto di sviluppo contestuale vorrebbe unificare alcuni dei costrutti espressi in que- sto scritto vale a dire pensare all’evoluzione ontogenetica dell’uomo secon- do alcune nuove coordinate concettuali e forse secondo nuovi apriori epi- stemici: l’emergenza come inattesa e imprevedibile direzione dello svilup- po al di là di ogni preconcetto idealizzato sullo sviluppo stesso; come frutto dell’interazione nel senso dato da Oyama, al di là della causalità lineare e di ogni dualismo; nel merito di ogni singola storia soggettuale e oltre il mito dell’universalità. Consideriamo i sistemi complessi dei sistemi aperti e quindi in costante evoluzione. Solo la morte decreta la fine dello sviluppo.
1 Il Kōan è un termine proprio del Buddhismo Zen e indica lo strumento di una pratica medi- tativa consistente in un’affermazione paradossale o in un racconto usato per aiutare la medi- tazione e quindi “risvegliare” una profonda consapevolezza. Di solito narra l’incontro tra un maestro e il suo discepolo nel quale viene rivelata la natura ultima della realtà.
2 Mandelbrot (Varsavia, 20 novembre 1924 – Cambridge, 14 ottobre 2010) fu un matema- tico polacco naturalizzato francese, noto per i suoi lavori sulla geometria frattale. A partire dai primi anni sessanta, e fino ai giorni nostri, l’applicazione della geometria frattale a questioni economiche ha condotto Mandelbrot a mettere in discussione alcuni consolidati fondamenti dell’economia classica e della finanza moderna, quali l’ipotesi di razionalità dei comportamenti degli agenti economici, l’ipotesi dell’efficienza del merca- to e quella secondo cui i movimenti dei prezzi di mercato sono descrivibili come un cammino casuale (random walk) in analogia al moto browniano di una particella in un fluido (Mandelbrot, 2001). Oltre alla riscoperta dei frattali in matematica, Mandelbrot dimostrò che essi possono essere la chiave di lettura delle forme presenti in natura, dando il via a una particolare sezione della matematica che studia la teoria del caos.
In occasione del conferimento della laurea honoris causa ottenuta dall’università di Bari, Mandelbrot ha tenuto una lectio magistralis intitolata “Fractals in Anatomy and Physio- logy”, nella quale fra l’altro affermava: “Il concetto di base che unisce lo studio dei frattali alle discipline come la biologia e l’anatomia e la fisiologia, parte dalla convinzione di un naturale superamento della geo- metria euclidea nella descrizione della realtà della natura. Volendo essere molto sintetici, i frattali servono a trovare una nuova rappresentazione che parta dall’idea di base che il piccolo in natura non è nient’altro che una copia del grande. La mia convinzione è che i frattali saranno presto impiegati nella comprensione dei processi neurali, la mente uma- na sarà la loro nuova frontiera.”
3 Gli studi in tal senso sono numerosi, in gran parte provenienti dall’Infant Reserch ma non solo e non è possibile in questa sede anche solo accennare ad un approfondimento, rimando in particolare ad alcuni Autori tra cui Tronick (1998), Stern (1995), Minolli (2009).
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Riassunto. “SVILUPPO PSICHICO, PECULIARITÀ DELL’INFANZIA O PROCESSO IN CONTINUO DIVENIRE DEL CICLO DI VITA?”.
L’Autore ripercorre sinteticamente la storia del pensiero psicoanalitico sullo sviluppo psicologico, evidenziando alcuni presupposti epistemici alla base di esso. Viene poi introdotto il concetto di “emergenza” quale costrutto interno alle teorie dei sistemi complessi dinamici e non lineari e successivamente il punto di vista del pensiero evoluzionistico post darwiniano con particolare riferimento alla teoria degli equilibri punteggiati” di Gould ed Elderidge. Ne emerge un’originale sintesi attraverso cui poter guardare allo sviluppo psicologico, non solo del bambino ma del singolo soggetto lungo l’intero arco di vita. (Parole chiave: sviluppo psicologico; emergenza; evoluzione punteggiata; ciclo di vita; sistemi complessi dinamici non lineari; dinamiche lineari).
Abstract. The Author traces briefly the history of psychoanalytic thinking on psychological development, highlighting some epistemic assumptions underlying it. Is then introduced the concept of “emergency” which construct internal to the theories of complex and dynamic nonlinear systems and then the point of view of the post Darwinian evolutionary thought with particular reference to the “Punctuated equilibria theory” of Gould and Eldridge. What emerges is an original synthesis through which to look at the psychological development, not only the child but the individual subject throughout the whole of life. (Keywords: psy- chological development; emergency; evolution dotted; life span; complex and dynamical nonlinear systems; linear dynamics).