Le sedute congiunte genitore/bambino
Le sedute congiunte genitore/bambino. Tra azione e simbolo ovvero come lavorare con gli impliciti nel contesto di vita del piccolo paziente
Questo scritto si propone di discutere dell’intervento di psicoterapia psicoanalitica infantile dalla prospettiva dei sistemi viventi complessi. Anche se sempre più condiviso e praticato nella clinica, si tratta di un cambio epistemologico significativo e quindi di tecnica. Dopo averne esplicitato i presupposti teorici, verrà discusso un modo di intervento che coinvolge il genitore nella seduta con il proprio bambino. Un caso clinico verrà brevemente portato ad esempio di intervento.
Parole chiave: psicoterapia infantile; psicoanalisi del bambino; sedute congiunte genitore-bambino
Per aiutare i bambini attraverso un percorso psicoterapeutico è necessario dare una collocazione nel progetto di cura alle persone per loro significative. Oggi questo assunto pare accettato quasi unanimamente e possiamo dire che venga dato quasi per scontato nella maggior parte delle prassi psicoterapiche con i bambini. E’ utile però ricordare che non sempre è stato così anzi in passato era quasi esclusa l’idea di prendere in carico un bambino e occuparsi contemporaneamente dei genitori, soprattutto da parte del medesimo professionista. Piuttosto, eventualmente, era consuetudine inviare ad un altro collega i genitori i quali seguivano un proprio percorso spesso indipendente da quello del figlio, nel senso che non prevedeva l’intersecarsi dei processi reciproci attraverso contatti tra i due analisti (pena “l’inquinamento” dei rispettivi setting di lavoro). Progressivamente negli ultimi decenni qualcosa è cambiato e oggi pare essersi invertita la “normale” procedura.
Dopo aver esplicitato di seguito i presupposti teorici alla base del nostro intervento clinico, presenteremo brevemente un caso per esemplificare quanto sostenuto nella parte teorica.
I presupposti teorico-epistemici
I paradigmi teorici o meglio i fondamenti epistemici su cui le stesse teorie dello sviluppo (e le conseguenti pratiche cliniche) poggiano sono molto cambiati in più di cento anni di storia. Nonostante la varietà dei modelli psicoanalitici sullo sviluppo che si sono susseguiti nel tempo, possiamo riepilogare alcune variabili comuni che sono rimaste costanti fino a pochi anni fa, anche se più o meno enfatizzate a seconda del riferimento specifico, ma ugualmente dettate da analoghi presupposti epistemici (Milanesi, De Robertis, 2013). Sintetizzando, esse sono:
- una concezione adultomorfa, patomorfa e retrospettiva dello sviluppo.
- una concezione che postula un’origine dello sviluppo a partire da una condizione di indifferenziazione, debitrice del concetto freudiano di narcisismo primario, e che dipinge un neonato pressoché privo di competenze cognitivo-emotive.
- una concezione della progressione regolare dello sviluppo, precostituita e ben definita nel tempo, di fasi e tappe successive che si consideravano terminate nella seconda infanzia con il superamento del complesso edipico o eventualmente con il finire dell’adolescenza. Il soddisfacente superamento di ciascuna fase risultava essere un prerequisito essenziale affinché si potesse accedere alla fase successiva e, soltanto assolto questo prerequisito, la fase precedente poteva risultare abbandonata in modo definitivo.
- una concezione di cartesiana memoria basata sulla separazione tra res extensa e res cogitans ossia tra mente e corpo. Gli assunti fondamentali della psicoanalisi tradizionale sono stati pervasi dalla dottrina cartesiana della mente isolata che ha diviso il mondo soggettivo in due regioni, una interna e una esterna, ne ha reificata la separazione e ha conseguentemente descritto la mente come un’entità oggettiva collocata tra altri oggetti, “una cosa pensante”, con contenuti suoi, che si rapportava ad un mondo esterno da cui rimaneva totalmente estranea. Nella cultura occidentale la filosofia cartesiana con il suo “mito della mente isolata” (Stolorow, Atwood, 1992, p. 7) si è trasformata nel corso dei secoli in concetti di senso comune con un effetto soffocante sul pensiero psicoanalitico che permane fino ad oggi (Sucharov, 1999).
Senza entrare nel merito di un’analisi epistemologica approfondita possiamo però constatare che negli ultimi trent’anni sono apparse delle teorie che hanno cercato a vari livelli di affrancare la teoria psicoanalitica dal pensiero cartesiano della mente isolata (Stolorow, Atwood, Orange, 1999; Stolorow e Atwood, 1992): dal relational track, rappresentato in modo particolare dall’opera di Mitchell e Aron (1999) alla meta-teroria dell’Io Soggetto di Michele Minolli (Minolli, 2015).
Se una volta si parlava di menti isolate (Stolorow e Atwood, 1992) “curabili” in modo a sé stante, oggi le menti non sono più considerate isolate ma intrinsecamente interagenti (Aron, 1996; Beebe e Lachmann, 2002; Tronick, 2007). Scrive Aron (1996, p. XIV): “La teoria relazionale si basa sul passaggio dall’idea classica, secondo la quale è la mente del paziente che viene studiata (e in cui si pensa che la mente esista indipendentemente e autonomamente all’interno dei confini dell’individuo) alla nozione relazionale secondo la quale la mente è intrinsecamente diadica, sociale, interattiva e interpersonale. Secondo la prospettiva relazionale, l’indagine della mente nel processo analitico implica necessariamente lo studio del campo intersoggettivo. Si è passati da una psicologia mono-personale ad una psicologia bi o multi-personale (Aron, 1996; Lichtenberg, et al. 1996; Mitchell e Aron, 1999), da una concezione intrapsichica dello sviluppo ad una concezione interattiva (Milanesi, 2015; Tronick, 2007) quindi nel caso di una presa in carico psicoterapica del bambino, il contesto di vita di quest’ultimo ed in primis i genitori, è divenuto un imprescindibile ambito cui prestare attenzione e di cui occuparsi concretamente.
Questa evoluzione dell’approccio psicoanalitico indica il superamento della visione freudiana totalmente inscritta nel paradigma scientifico classico riduzionista newtoniano che si fonda su: linearità causa-effetto, tempo lineare, ricerca e scomposizione degli elementi costitutivi di un fenomeno, una concezione della realtà come unica, oggettiva, esterna e separata/indipendente dall’osservatore. Il passaggio al paradigma della complessità implica perciò la modificazione di ognuna delle premesse fondanti.
Una visione complessa
Adottiamo un’ottica “complessa e sistemica” (Sander, 2008; Minolli, 2011, 2015; Cavelzani, Tronick, 2016a) e cercheremo di esporre una sintesi di alcuni dei presupposti epistemici che ne stanno alla base. Dovremo necessariamente essere sintetici perché sarebbe poco proficuo, in questa sede, addentrarci in quello che è un universo molto ampio. Tuttavia pensiamo sia importante questa ulteriore premessa teorica o metateorica perché permette, tra l’altro, di gettare uno sguardo critico sull’uso della teoria stessa nella pratica clinica. Infatti la conduzione di qualsiasi psicoterapia e il suo procedere clinico non possono prescindere dai referenti teorici a cui l’analista fa riferimento. Non esiste un “fare clinico” che non poggi su un presupposto teorico, sia esso esplicito o implicito. Inoltre è presumibile che per quanto un analista cerchi di essere fedele al proprio approccio teorico, di fatto si discosti da questo, soprattutto proprio in riferimento all’epistemologia sottostante che è spesso implicita e quindi non conosciuta o conoscibile. In altre parole, per quanto ci si sforzi e si lavori per rendere espliciti i propri impliciti, non sempre questo è possibile e così, spesso, il nostro agire clinico resta in parte invisibile ai nostri occhi. E’ quindi anche possibile che esista un’incongruenza tra i referenti teorici impliciti e quelli a cui l’analista ritiene esplicitamente di riferirsi, se non altro perché nella nostra formazione di psicoanalisti è racchiusa in qualche modo, e non solo perché la si studia, gran parte della storia del pensiero psicoanalitico e certamente quella del pensiero freudiano cioè del padre fondatore ed è anche da questo intricato groviglio formativo che ogni analista “estrae” la sintesi su cui basa il proprio riferimento teorico esplicito. Inoltre esiste in ogni analista, al di là di ogni teoria studiata, un’idea implicita di essere umano, frutto della propria personale esperienza di vita.
La questione dell’importanza dei referenti epistemologico-teorici dell’analista ha a che fare, da un lato, in senso più generale, con l’idea di essere umano che alberga nell’analista stesso e con l’idea che egli ha di come l’essere umano evolva e possa cambiare, da un altro lato e in senso più specifico ha invece a che fare con l’obiettivo e con il metodo dell’analisi.
Risulta fondamentale che l’analista sia in contatto con i suoi reali intendimenti riguardo queste due questioni sapendo anche che i loro campi di influenza in parte si sovrappongono.
L’infant Research
L’imponente mole di dati che l’infant research (Stern, 1985; Tronick, 2007) ha prodotto negli ultimi 30-40 anni, ha scosso le fondamenta dei modelli psicoanalitici e ha cambiato in modo radicale le conoscenze sul mondo infantile (Lavelli, 2007). Nell’area psicoanalitica i primi cambiamenti sulla concezione dello sviluppo sono avvenuti in seguito all’adozione di un’inedita procedura di ricerca che non si è limitata all’uso quasi esclusivo del metodo inferenziale – come avveniva precedentemente attraverso l’impiego di casi clinici, con il risultato di inferire i dati sul neonato da campioni di pazienti adulti (o anche di bambini più grandi) con situazioni psicopatologiche– ma che ha indagato con un metodo diretto la vita del bambino dalla nascita. Si scoprì così che il neonato non si limita a rispondere con una risonanza globale (Dazzi, 2000), ma mostra di possedere un vasto e specifico repertorio di competenze. Tra le innumerevoli competenze che in base alle evidenze empiriche il neonato possiede, segnaliamo la capacità di saper riconoscere l’odore e la voce materna, le differenze del volto di padre e madre, distinguere le emozioni a seconda del tono vocale, imitare i sorrisi, avere espressioni di sorpresa, mantenere l’arousal basso quando si sente pulito e nutrito, rispondere sorridendo alla gioia della mamma, mostrare il disagio voltando la testa in caso di intrusione, aggrottare le sopracciglia se vede la mamma arrabbiata e reagire sbavando o masticando a vuoto se la vede triste, ecc. (Stern, 1985). Tutti questi dati, e altri ancora1, hanno permesso di cogliere la sensibilità originaria con cui il neonato vive e risponde alle emozioni positive e negative: un’osservazione allora inaspettata quanto oggi scontata. Sempre nel novero delle capacità cognitive di cui dispone il piccolo dell’uomo, è individuabile la capacità di effettuare un accoppiamento transmodale tra modalità sensoriali differenti, distinguere gli odori e le voci di altri neonati nella nursery, imitare l’adulto (quale forma di protocomunicazione), crearsi aspettative su avvenimenti in base a schemi che si ripetono e reagire alle violazioni di questi già ad una settimana di vita (dimostrando la capacità di rilevare contingenze prevedibili in tempi brevi e implicitamente avviare l’aspettativa di poter influire sull’altro), percepire la durata del tempo preferendo azioni sincronizzate, osservare la differenza tra schemi spaziali umani e meccanici, memorizzare gesti ed emozioni ed operare categorizzazioni (Carli, Rodini, 2008).
Questo spazio dilatato di conoscenze ha invaso le riviste scientifiche della comunità degli studiosi dell’infanzia, diventando presto di dominio comune. Ciò costrinse da un lato ad abbandonare l’idea precedentemente dominante di un neonato privo di organizzazione mentale attiva nei confronti dell’ambiente e dall’altro, vista la dotazione innata di competenze e strumentazioni nel bambino orientate a metterlo in relazione col proprio caregiver, a porsi interrogativi sulla qualità delle cure ovvero sulla possibilità di influenzare l’andamento della crescita da parte delle figure di accudimento.
L’essenza delle acquisizioni infantili di cui abbiamo accennato afferma che gli eventi interpersonali e intersoggettivi, sono espressi in comportamenti d’interazione fisica: orientamento e distanza tra i corpi, direzione degli sguardi, valenza delle espressioni facciali affettive ecc. e sia i neonati che i genitori comunicano utilizzando questo stesso “linguaggio dell’azione”: comunicano per via procedurale (Lavelli, 2007).
Le ricerche di molti autori (Beebe e Lachmann, 2002; Lichtenberg, 2008; Knoblauch, 2000; Stern, 1998) sono convergenti nel sostenere che questo linguaggio dell’azione, basato sulla memoria implicita, perduri tutta la vita e costituisca l’interfaccia tra ciò che abitualmente chiamiamo “intrapsichico, interazionale e intergenerazionale”.
Appaiono evidenti due livelli: uno fisico caratterizzato da elementi oggettivi su piccola scala di realtà, ad esempio i cambiamenti dello sguardo, gli avvicinamenti, gli allontanamenti, etc.; l’altro caratterizzato da motivazioni, conflitti, desideri, dipendenza, attaccamento, etc., in una parola da significati simbolici. Da un punto di vista didattico teniamo distinti questi due livelli ma dobbiamo in realtà considerarli profondamente integrati, espressione di un’unitarietà psico-corporea. Dobbiamo cioè andare oltre la visione dicotomizzante e riduzionista e considerare l’essere umano (Io-soggetto) come un sistema complesso (Minolli, 2009).
L’organismo umano è composto da più parti: dalla memoria alla riflessività, dal fisico alla percezione, dalla sensazione all’implicito, ecc. Purtroppo siamo abituati a considerare queste parti isolate o a se stanti o con uno sviluppo proprio invece queste parti, che esistono solo dal punto di vista classificatorio, sono un tutt’uno con l’organismo (Minolli, 2009). Pensare all’Io-soggetto come sistema è pensare a tutti questi elementi e a moltissimi altri ancora sconosciuti, uniti da un certo tipo di regolare interazione e di interdipendenza o a un gruppo di unità diverse rapportate tra loro in modo tale da costituire un’unità integrale coerentemente con la legge della totalità dei sistemi (Sander, 1995; Hofstadter, 1979).
Non si tratta di un semplice accostamento e neppure di una somma aritmetica: l’organizzazione è risultato di una funzionalità dell’insieme, finalizzata, nei sistemi viventi, al mantenimento della vita Sander, 1995; Tronick, 2007).
Il principio della “ricorsività”
Il principio della “ricorsività” (Morin, 2007) è un altro fondamento della teoria della complessità e sostituisce il principio di “causa-effetto” lineare. Esso è ben espresso da questo esempio: “la mia mano tocca il mio corpo, il tavolo o qualsiasi altra cosa, ma contemporaneamente, e sottolineo contemporaneamente, è toccata da quello stesso ente”. Quindi si apre un mondo biunivoco, di reciprocità ricorsiva: io tocco e sono toccato e il mio toccare è quasi immediatamente influenzato dall’essere toccato e viceversa, in modo continuo circolare e imprevedibile2. Ci pare più rispettoso del paziente e più vicino alla realtà, abbandonare un tipo di spiegazione lineare e adottare un tipo di spiegazione circolare. In base alla ricorsività stabiliamo che l’organizzazione di un sistema produce degli effetti e dei prodotti necessari alla sua stessa causazione e alla sua stessa produzione come è stato ben evidenziato empiricamente da diversi studi dell’Infant Research nel momento in cui essa orientò la sua ricerca sull’osservazione diretta dell’interazione tra il bambino e la madre. Questa focalizzazione ha permesso l’elaborazione di un modello teorico sullo sviluppo del bambino intrinsecamente innovativo, basato sul concetto di “sistema diadico”, che ha spinto tutta la psicoanalisi a profonde rivisitazioni che sottolineano quel processo in cui l’azione e il comportamento di uno dei due partner, nel momento in cui viene emesso, modifica l’azione e il comportamento dell’altro prima ancora che sia terminato e così di seguito.
Si tratta di ricerche (Beebe e Lackman, 2002; Stern, 1995; Tronick, 1998) che, per mezzo dell’analisi statistica di micro sequenze video filmate dell’interazione madre-neonato, hanno evidenziato una circolarità micro sequenziale interattiva procedurale tra la madre e il bambino stessi. Ad esempio i due partner anticipano e proseguono in modo bidirezionale il comportamento l’uno dell’altro dimostrando così di formare degli schemi spazio temporali su base affettiva che sono un misto del bambino e dell’altro e appartengono tanto al neonato quanto alla madre. Come scrive Oyama:”…. in ogni momento le influenze e i vincoli esercitati sul sistema sono sia funzione degli stimoli presenti che il risultato di stimoli, risposte e integrazioni passate, e che il significato di un componente non è mai dato a priori ma è determinato contingentemente nello svolgersi stesso delle interazioni; … sono gli organismi a organizzare e costruire l’ambiente circostante così come sono da questo “organizzati” e “costruiti…” (Oyama, 1998). Dunque il bambino è biologicamente attrezzato per interagire attivamente con il contesto circostante fin dalla nascita ma la sua “configurazione psichica” diviene a partire dalla rete relazionale e dal contesto dato con i quali è in una costante interazione sofisticata e complessa.
I genitori: Inscindibilità della coppia coniugale/genitoriale
Possiamo affermare, sostenuti dal lavoro dell’LTPG (Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery, 1999), che il bambino, fin dai primi mesi di vita è in contatto con la qualità del rapporto dei suoi genitori. L’ipotesi sostenuta (Fivaz et al., 2007) è che lo schema d’interazione che si crea rifletta le storie delle passate interazioni dei genitori. Ritengo fondamentale approfondire questo aspetto del discorso per meglio comprendere le dinamiche famigliari in ordine a ciò che definiamo il “passaggio dalla coppia coniugale alla coppia genitoriale”.
Quando nasce un figlio accade qualcosa di straordinario, un cambiamento epocale nella vita della coppia e dei singoli genitori. Così come l’innamoramento, caratterizzato dal reciproco legame in una dimensione di “non tempo” (Minolli, Coin, 2007) sancisce la nascita della coppia, l’arrivo del figlio sancisce la nascita della famiglia. Assistiamo al passaggio dalla coppia alla famiglia e con esso dalla coppia coniugale alla coppia genitoriale. Così come l’Io-soggetto continua la sua esistenza individuale nel duale di coppia, allo stesso modo la coppia continua ad esistere quando si fonda la famiglia e la dinamica della coppia stessa, come diremo più avanti, esercita un forte influsso sulla costituzione della famiglia. La coppia coniugale diviene coppia genitoriale non per un processo interno alla coppia stessa ma solo in virtù della nascita del bambino. Un figlio, che sia voluto e quindi cercato o che sia un “incidente di percorso”, necessariamente sposta il duale di coppia a un duale genitoriale cioè di entrambi i partner verso il figlio. Uno spostamento che è anche funzione di quanto è stato o non è stato elaborato della “funzionalità” duale di coppia ma allo stesso tempo è espressione di un tipico e originale investimento3 del genitore sul figlio. Questa originalità è legata alla progettualità della coppia ma soprattutto al bisogno di generatività. Non è però questo desiderio che inizialmente viene a essere in primo piano, non fosse altro per il cambiamento di significato che ha avuto la sessualità negli ultimi decenni: da momento di accoppiamento finalizzato alla procreazione a espressione di contatto emotivo nel duale amoroso. Ciò che viene ad essere predominante nell’essere umano è l’investimento che i genitori fanno sulla loro prole in ordine ad uno spostamento dal duale di coppia amoroso a quello filiale, un investimento che è dipendente dalla configurazione specifica della coppia nel momento del concepimento del figlio. Cercando di vedere le cose dal punto di vista del neonato dobbiamo sottolineare che il suo ambiente è, inizialmente, la coppia dei genitori. Inoltre egli vive in un contesto geografico, culturale, sociale, di cui i genitori sono senz’altro portatori. Quindi il suo stato, eventualmente la sofferenza o anche il sintomo, non sono solo suoi ma rappresentano la sua soluzione nel contesto in cui vive.
Ci rendiamo conto che l’apertura del mondo psicanalitico al paradigma della complessità pone una serie di nuovi quesiti sia teorici che procedurali che in questa sede possiamo solo ritenere di avere abbozzato e non certo risolto. Ad esempio resta certamente un tema aperto il come considerare la complessità dei rapporti parentali che sempre incidono sul sottosistema della coppia che a sua volta incide sul sistema bambino. Oppure come gestire durante il processo clinico il difficile passaggio che collega il disagio del bambino ad un problema dell’intero sistema familiare, senza che i genitori si sentano colpevolizzati, rendendo così possibile la loro compliance (Gandolfi, Martinelli, 2008 ).
Sostenere che il sintomo è la soluzione che l’Io-soggetto adotta nel suo contesto di vita ci pare un tentativo in tale direzione. La pregnanza di tale affermazione è dettata dalla necessità di non perdere la soggettività del singolo pur considerandolo inserito in un contesto e metaforizzato come un sistema complesso, in ordine al tentativo di aprire il mondo della psicoanalisi al paradigma della complessità.
Dire che il sintomo è la soluzione che il singolo soggetto adotta nel contesto in cui vive, significa da un lato concepire il singolo nel sistema contestuale ma dall’altro sottolineare il modo in cui il soggetto, anche attraverso i sintomi classicamente intesi, definisce sé stesso come esistente. In altre parole, quel sintomo è il modo in cui quel soggetto afferma sé stesso esistente in quel contesto dato.
Non sappiamo quindi quanto ipotizzare un nesso causale diretto tra la qualità del duale di coppia e la configurazione che va assumendo il bambino piuttosto che evidenziare l’apporto attivo del neonato che fa suo il mondo dei genitori in modo singolare secondo la propria agency. Preme evidenziare l’inscindibilità tra coppia coniugale e coppia genitoriale che possiamo tenere distinte solo in termini concettuali o didattici. Il neonato costituisce l’elemento più debole nella triade ed é probabile, quasi inevitabile, che assorba molti dei problemi non risolti della coppia. Il bambino fa suo il modo interattivo dei genitori che si fonda sulla reciproca funzionalità di coppia (Minolli e Coin, 2007) perché questa esprime l’essenza più profonda del modo individuale dei due partner di essere con l’altro e per il bambino diviene terreno privilegiato del proprio essere. Il neonato dunque “respira” nel solco del rapporto di coppia seppur individualmente con la madre o con il padre e ogni genitore si rapporta al figlio in quanto membro della coppia. In questo senso possiamo affermare che “i figli sono lo specchio dei genitori”. Dovrebbe essere compito di questi ultimi distinguere i due ruoli di madre e padre da quelli di moglie e marito. Più i partner sono capaci di riconoscere i propri impliciti nel legame con l’altro, sono cioé abituati ad elaborare il proprio divenire nel duale di coppia, più saranno capaci di condividere l’investimento sul figlio mantenendolo “pulito” cioé evitando di spostare su di esso le problematiche non risolte (non colte) interne al rapporto di coppia. Quindi alla nascita del figlio o la coppia è abituata a gestire il proprio duale e il figlio partecipa di questo atteggiamento interno alla coppia (costruttivo, spesso doloroso ma arricchente per i singoli partner che divengono nel tempo) oppure il figlio diverrà oggetto di investimento alternativo; nel primo caso l’investimento sul figlio sarà più “pulito” cioé sarà genitoriale in senso stretto, caratterizzato dal senso di generatività e di cura e certamente condiviso con il compagno-genitore. Dobbiamo quindi ipotizzare e sostenere l’esistenza di un tipico investimento del genitore sul figlio, che attua un “duale amoroso di cura filiale”. Tra il genitore e il bambino c’è anche un reciproco investimento che è diverso dall’investimento della sola coppia genitoriale. Esso immette nella realtà del proprio divenire, qualcosa di nuovo che spesso è soffocato o nascosto dietro alle dinamiche del duale amoroso di coppia e con esso si intreccia inestricabilmente ma può venire alla luce, soprattutto quando la coppia utilizza il proprio duale per la reciproca crescita evolutiva e il figlio può venire investito come individuo altro da sé. La qualità dell’investimento genitore-figlio si connota come “investimento generativo” (“oltre me e oltre il mio tempo”) che quasi inevitabilmente si traduce nel desiderio di vedere realizzato nel figlio ciò che è mancato al genitore: “tu sarai ciò che io non sono stato e farai ciò che io non ho fatto”.
Nell’innamoramento che fonda la coppia tra adulti, il reciproco investimento é basato sul “non tempo” (per sempre, fin che morte non ci separi); nell’innamoramento genitore/figlio, l’investimento del genitore è basato “sull’oltre il tempo” (per sempre anche dopo la morte). L’investimento sul figlio è un’illusione se la coppia genitoriale si limita a confinare nel figlio un proprio progetto in cui il figlio stesso è “concepito” come proprietà e come depositario delle aspettative dei genitori. La coppia si deve occupare della propria funzionalità in modo che ogni Io-soggetto della coppia giunga a vivere una condizione basata su un’intimità matura tra pari (Jullien, 2014) che è ben sintetizzata nell’espressione: “Io sono io e ti amo per quello che sei e non per quello che confermi a me e di me”. Questo permette una maggior nitidezza e differenziazione degli investimenti incrociati interni alla famiglia portando in risalto la differenza tra la simmetria della relazione nel duale amoroso di coppia e la “asimmetria” del duale amoroso filiale (Milanesi, 2012). La crisi tra genitori e figli ad esempio, nasce quando i figli si rifiutano di essere come i genitori li vorrebbero e il figlio non corrisponde più al progetto della coppia ma preme per “poter andare sulla sua strada”. La coppia può accettare questo cogliendo la bellezza della diversità del proprio figlio, può riportare al suo interno ciò che le pertiene e osservare il proprio figlio crescere senza ricercare in lui un’intimità auto-confermante. Possiamo vedere il processo del divenire che parte dall’innamoramento nella coppia e che poi attraversa altri momenti in cui l’investimento e la progettualità vengono continuamente elaborati nel tentativo di “amarsi per quello che si è e a partire da sé”. Il punto centrale é che questi investimenti sono porte di accesso al divenire dell’Io-soggetto.
Alleanze familiari come investimenti sul figlio da parte della coppia
Alla luce di quanto appena esposto riguardo la dinamica della coppia coniugale/genitoriale, possiamo riconsiderare le alleanze famigliari descritte da Fivaz e Corboz-Warnery (1999). Intendiamo cioè sostenere che le alleanze famigliari sono funzione dell’intreccio dei reciproci e incrociati investimenti duali degli Io-soggetti interni alla famiglia (più o meno allargata).
Famiglia, in questo senso, sarebbe l’Intreccio di investimenti nel duale, diversi ma tra loro collegati. Tali investimenti possono avvenire tra singoli Io-soggetti o tra un Io-soggetto e la sua percezione della gestalt di un insieme di più individui. Appare ovvio come tali investimenti incrociati possano essere molti, ci soffermeremo in questa sede sull’analisi degli investimenti della coppia verso l’Io-soggetto bambino. Per quanto riguarda la coppia dobbiamo pensare innanzitutto a due fattori che incidono sull’investimento nei confronti del figlio: il primo è che il figlio è piccolo e come già detto costituisce l’anello debole e quindi è solitamente considerato “proprietà” da parte dei genitori. Questa dinamica favorisce senz’altro lo spostamento sul figlio delle personali aspettative dei genitori, anzi direi che ciò è intrinseco al legame genitore figlio, soprattutto nella fase iniziale. Il secondo fattore è relativo al sesso del figlio (che sia maschio o femmina) e all’ordine di genitura (che sia il primo o venga dopo altri fratelli o sorelle). Solo una coppia che ha raggiunto o tenta di raggiungere un’intesa tra partner basata sul rispetto della diversità riesce ad accogliere il figlio come Io-soggetto a se stante e autonomo e ad attuare un investimento basato sulla generatività quale fondamento del duale amoroso di cura filiale. Così facendo si favorisce il crescere del figlio e si instaura con lui un rapporto di ammissibilità dei reciproci modi di essere evitando la ricerca di un’intimità che ha spesso per il genitore il solo scopo implicito di autoconferma di dimensioni proprie tra cui quella di genitore perfetto (Milanesi, 2012). Non esistono genitori perfetti, la “madre buona” è quella che coglie come è fatta lei e lo riconosce al figlio portando questa consapevolezza per via implicita nel rapporto con il figlio stesso (duale d’amore filiale). Ciò detto possiamo ipotizzare alcuni investimenti possibili da parte della coppia verso il figlio4 che andranno certamente a determinare, insieme ad altre variabili, quelle che la Fivaz (1999) definisce alleanze famigliari. Riteniamo utile una simile classificazione, che non ha certo la pretesa di risultare esaustiva, anche in ordine ad una diagnosi funzionale della famiglia.
- Il figlio è concepito e vissuto come un ideale: è un livello molto profondo che ricapitola l’innamoramento ormai perso verso il partner senza che sia stato accettato e superato nel confronto duale interno alla coppia. Rimane quindi il “desiderio” di avere una risposta dall’altro alle proprie esigenze e il figlio diventa quello che “deve” dare risposta a questa attesa.
- Il figlio è concepito e vissuto come alternativa al coniuge: ad un livello meno profondo del precedente, quando determinati sentimenti, affetti o desideri non sono corrisposti dal coniuge, il figlio diviene facilmente il sostituto del partner nel senso che in lui verrà cercata la risposta desiderata o assolutizzata. In questo caso il figlio è investito di un potere alternativo e a volte sostitutivo.
- Il figlio è concepito e vissuto come compensazione della crisi tra i coniugi: quando i partner “colgono” che il loro rapporto è bloccato allora è facile pensare a un figlio quale fonte di nuovi stimoli nell’illusione del superamento della crisi. In questo senso il nascituro viene investito di un potere salvifico.
- Il figlio è concepito e vissuto come ostacolo al rapporto di coppia: il figlio è senz’altro espressione del desiderio ma in questo caso viene negato a vantaggio del rapporto con il partner. Il rapporto con il partner va sempre più configurandosi come assolutizzato e quindi intoccabile e inamovibile. In quest’ottica il figlio viene investito di un significato negativo e viene considerato come intruso o “terzo incomodo”.
- Il figlio è concepito e vissuto come stimolo per andare oltre il duale di coppia: l’esito del divenire nel rapporto di coppia è appropriarsi del proprio investimento (io sono e ti amo per quello che sei). A quel punto, più o meno raggiunto, può diventare un bene per entrambi confrontarsi e mettersi alla prova nel loro amore dedicandosi a un terzo rappresentato dal figlio. Un confronto stimolante e arricchente di crescita. In questo contesto il figlio viene investito come Io-soggetto a se stante e autonomo e sarà libero di andare per la sua strada, innamorarsi a sua volta andando oltre, elaborandolo, il suo “essere lo specchio del rapporto tra i suoi genitori”. Tale processo ha nella famiglia uno specifico che deve essere approfondito e meglio compreso.
Le sedute congiunte genitore-bambino: aspetti tecnici
Come proposto prima, l’essere umano (il bambino, ma anche la coppia genitoriale, e la famiglia come unità) è visto come un sistema dinamico complesso in continua interazione con l’ambiente. E il sistema tende sia al mantenimento della propria identità storica, sia al continuo sviluppo e alla ricerca di nuovi modi di essere più funzionali ed adattativi. Conseguentemente, l’intervento analitico attuale opera spesso non limitandosi a trattare il bambino “da solo”, ma anche con sedute congiunte genitore-bambino al fine di:
- sostenere l’interazione genitore-bambino laddove capace di creare scambi emotivi e comunicativi sintonici e mutualmente piacevoli ed arricchenti;
- aprire il sistema duale (o triangolare) genitore-bambino a scambi emotivi e comunicativi più complessi e coerenti.
Il focus è sul bambino, anche se è inevitabile che il genitore verrà messo a qualche livello in discussione dato che ci si occupa e si lavora sull’interazione tra i due.
Le sedute congiunte fanno parte di una strutturazione di setting che prevede necessariamente incontri separati con la sola coppia genitoriale/coniugale, mantenendo tuttavia come polo privilegiato di intervento il bambino. Questo ha un fondamento teorico nel senso che il bambino non si dissolve nella relazione così come non si dissolve il genitore. In altre parole, muoviamo dal bambino pur consapevoli che questo avrà ripercussioni sull’altro polo della relazione diadica. Perciò possiamo prevedere incontri con la sola coppia dei genitori così come non sono esclusi a priori incontri con il solo bambino o con un solo genitore. Sono i movimenti interni al sistema ciò a cui ci adattiamo modificando il setting e non dobbiamo pensare che sia il setting a priori a modificare il sistema. L’intervento analitico deve innanzitutto cogliere (o fare delle ipotesi in merito) l’interfaccia tra il procedurale e il simbolico (Harrison, 2014) della relazione genitore-bambino. A tale riguardo, può essere utile una posizione dell’analista che “fa da tappezzeria”, cioè che osserva e analizza ciò che sta accadendo a livello procedurale e simbolico nel qui e ora, cercando però di ridurre al minimo aggiuntive stimolazioni interferenti la diade osservata. La coppia genitore-bambino ha infatti un suo schema simbolico e procedurale e ha un suo procedere (un suo divenire) che è peculiare di quella coppia e va rispettata.
Successivamente si può stimolare il sistema diadico ad aprirsi a scambi emotivi e comunicativi più complessi e coerenti. Per fare un esempio, se notiamo uno scambio interattivo in cui la madre assume un atteggiamento “direttivo” e inibente del bambino, sostenuto da un certo sguardo severo e una certa mimica e un congruente tono di voce e contemporaneamente un corrispettivo del bambino coerente all’interno del sistema di inibizione o di opposizione aggressiva, il nostro intervento una volta osservata questa dinamica interattiva deve essere volto ad “aprire” a nuovi possibili sviluppi accettabili da entrambi i partner. Altrimenti l’esito sarà una chiusura e un’ulteriore sclerotizzazione e irrigidimento della dinamica originaria. Quindi proseguendo nel nostro ipotetico intervento potremmo dire ai genitori: “proviamo a creare un finale diverso per questo gioco”.
Infine, è importante anche evitare la “bolla terapeutica”, cioè la costituzione di una condizione di apparente benessere del bambino che si realizza solo nello spazio terapeutico della seduta ma che non modifica per nulla le procedure implicite nelle relazioni esterne al setting, ad esempio quando un genitore tende a sottrarsi all’interazione con il figlio nella stanza di analisi e chiede più o meno implicitamente che sia il terapeuta a interagire con i bambino assumendo una posizione apparentemente esterna, ma soprattutto rinunciando alla sua competenza di genitore e ad essere protagonista.
Esemplificazione clinica Caso di Cesare
In seguito alla telefonata della madre per il figlio Cesare che “non vuole più andare a scuola e manifesta strani pensieri”, viene proposto di incontrare dapprima solo i genitori per approfondire come percepiscono la questione e successivamente alcune sessioni di osservazione dell’interazione madre-bambino, padre-bambino e di tutta la famiglia insieme, al fine di cercare di comprendere le loro modalità di scambio e di relazione comunicativo-affettiva a livello procedurale e simbolico. Negli incontri coi genitori apprendiamo che la madre è italiana, il padre inglese (facciamo le sedute in inglese giacché è la lingua della coppia), Cesare ha 6 anni e la sorellina 2 anni. I genitori si sono conosciuti a Londra dove hanno vissuto fino a quando Cesare aveva due anni e poi si sono trasferiti in Italia perché la mamma ricevette un’offerta di lavoro molto vantaggiosa. Il padre, fotografo, da quando è arrivato in Italia non lavora. Si è dedicato ad accudire Cesare fino ai 3 anni quando è andato all’asilo.
I problemi sembrano essere iniziati quest’anno da quando Cesare va alla scuola elementare: un primo sintomo è il rifiuto di fare i compiti, inoltre non va a scuola volentieri. A casa c’è sempre da litigare per fare i compiti.
Il secondo sintomo consiste in affermazioni che Cesare pronuncia sempre più spesso e che sembrano sottendere un vissuto depressivo: “diventeremo poveri, da grande andrò a dormire sotto un ponte, morirò, mi butto giù dalla finestra”. I genitori non hanno idea di come mai Cesare dica questo.
Negli incontri coi genitori, il padre è apparso molto sottotono. E’ emersa la sua frustrazione per aver abbandonato il proprio lavoro di fotografo e appesantimento per il prendersi cura dei figli a tempo pieno pur desiderandolo. Si è così colta una certa qualità dell’investimento sui figli per cui occuparsi di loro viene vissuto come mettere in secondo piano i propri bisogni personali depauperando la relazione della vitalità del desiderio paterno e ammantandola di frustrazione e delusione. Dall’altro lato, la madre si sta dedicando a tempo pieno al lavoro, uscendo la mattina quando i figli ancora dormono e rientrando dopo le venti, appena in tempo per far addormentare la figlia piccola mentre dopo poco anche Cesare deve andare a dormire. Appare sorpresa e incredula, più che preoccupata, riguardo i sintomi del figlio, cosi come sembra che il suo stile di vita, anche a livello di coppia, le vada bene così.
Nelle sedute con mamma, solitamente Cesare all’inizio non ha voglia di entrare né di giocare, dice sempre che non gli piace nessun gioco e che non capisce perche “deve venire da questo signore” (l’analista) e corre a sdraiarsi sul divano dicendo che ha sonno. Mamma solitamente prova invano a coinvolgerlo con diversi giochi, in modo calmo, lento e non troppo invasivo. Lentamente Cesare inizia a guardare il suo libro preferito sui dinosauri che porta sempre con sé, e successivamente propone di giocare a “star-wars” assegnando a se stesso il ruolo a volte di un personaggio “buono” e a volte di “cattivo” mentre mamma e l’analista sono gli antagonisti. Alla fine del gioco lui vince sempre giacchè fa lui le regole. Il gioco consiste sempre in scene di scontri tra personaggi (di fatto guidati tutti comunque da lui).
L’atmosfera del gioco e delle intere sedute è globalmente serena, con mamma che interagisce molto affettuosamente baciandolo, carezzandolo e abbracciandolo a volte per calmarlo, a volte per incoraggiarlo. Spesso Cesare fa diverse battute sul “culo e le tette” di mamma, cui la signora reagisce sorridendo e sdrammatizzando.
Nelle seduta con papà, l’atmosfera degli scambi comunicativi ed emotivi è molto diversa: dopo una iniziale resistenza a entrare in stanza, più breve di quando c’è mamma, solitamente Cesare vuole subito giocare alla guerra e in particolare a star-wars, utilizzando spesso i propri soldatini. Sul volto del padre sono chiaramente visibili tensione e noia per il tipo di gioco, cosi come fastidio per i continui riferimenti di Cesare a “mangia la cacca stupido!”, “ti picchio sul culo”, “ti taglio il pisello merdone”.
Queste sedute congiunte illustrano quanto esposto nella parte teorica circa la posizione dell’analista che fa da “tappezzeria”, cioè con un ruolo più osservativo e volto a facilitare l’emergere degli scambi comunicativo-affettivi sia a livello procedurale sia simbolico propri di questa diade (o di piu diadi considerando non solo la coppia madre-bambino ma anche padre-bambino, così come quella dei coniugi e l’intero sistema famigliare). In questo ruolo l’intento è infatti di ridurre al minimo aggiuntive stimolazioni interferenti la diade osservata. Vedremo in seguito un esempio di un secondo ruolo dell’analista come stimolatore di complessità.
Riguardo Cesare e la sua famiglia, emerge l’ipotesi che il figlio sia vissuto da entrambi i genitori come il sostituto del partner: da un lato il padre, rinunciando alla realizzazione professionale e sentendosi messo da parte dalla moglie (la coppia ha smesso di avere rapporti intimi due anni fa dopo che è nata la seconda figlia), sembra aver riversato implicitamente sull’accudimento dei figli il proprio bisogno di amore: un bisogno di risposte desiderate o assolutizzate che ora portano con sé delusione e svalutazione.
Dall’altro lato, la madre sembra aver riversato sul lavoro il proprio bisogno di autorealizzazione, e cercando di essere a suo modo molto affettuosa nel poco tempo passato coi figli, avendo ancora in allattamento al seno la bimba di ormai due anni.
In un’altra seduta dedicata solo ai genitori, capitò che si presentarono tutti insieme giacchè la babysitter era malata e non sapevano a chi altri lasciare i figli. L’analista, nella posizione di voler accogliere tutto ciò che il sistema famigliare stava esprimendo di sé, fece accomodare tutti e si pose in ascolto osservativo cercando di favorire l’emergere degli scambi propri di questa famiglia. Successe dunque che la sorellina stava dormendo nel passeggino, i genitori si erano seduti sul divano e iniziavano a raccontare all’analista di come era andata la settimana mentre Cesare aveva preso come solito il suo libro preferito sui dinosauri e iniziava a leggerlo. Dopo poco Cesare è andato a battere la culla e urlare addosso alla sorellina cosi che lei si è svegliata piangendo. I genitori si sono arrabbiati dicendo a Cesare che era uno stupido. In seguito, Cesare si è messo a fare dei disegni con papà intanto che mamma cercava di calmare la sorellina. I disegni contenevano un “maiale volante che faceva la cacca dappertutto”. In altri disegni c’erano tette, culi e piselli, oltre a polpette di cacca da mangiare.
Osserviamo il funzionamento di Cesare: ad un certo punto ha smesso di occuparsi di una sua attività preferita (il libro dei dinosauri) per andare a “disturbare” la sorellina che dormiva, ricevendo così in ritorno dai genitori una immagine di sé negativa. Successivamente, Cesare ha riprodotto nel disegno un maiale che faceva la cacca dappertutto e che la offriva a tutti da mangiare.
Attraverso le sedute congiunte e i colloqui con solo i genitori, è possibile ipotizzare che Cesare stia esprimendo disagio su livelli multipli di complessità (Cavelzani, Tronick, 2016b).
Su un primo livello, manifesta tensione collegata ad un “normale” processo di crescita legato alle richieste che l’ambiente pone. Forse Cesare si sta chiedendo perché è stato recentemente messo a dormire in un’altra stanza, in un certo senso mandato via dalla stanza dei genitori dove era abituato a stare finora, perfino rimpiazzato da un’altra bambina rispetto all’intimità dell’allattamento (che la madre portò avanti anche con Cesare fino ai due anni). Forse si chiede anche perché ora debba andare a scuola dove ci sono compiti da fare, doveri e voti-giudizi, mentre era abituato a giocare all’asilo e prima ancora a stare a casa a giocare con il suo papà. Attraverso il non voler andare a scuola e il non fare i compiti sembra esprimere una tendenza a mantenere ciò cui è abituato (dormire coi genitori; giocare a casa col papà o all’asilo con gli amici) opponendo resistenza a esplorare nuove dimensioni.
Ad un secondo livello, forse Cesare si interroga su chi è lui all’interno di questa coppia e di questa famiglia manifestando tra l’altro un’opposizione alle implicite richieste assolutizzate dei genitori: sono forse un bambino negativo, un disturbatore, un creatore di problemi? Conseguentemente sembra tendere a livello implicito a comportarsi in modo tale da verificare attraverso i genitori se sia infatti cattivo, negativo (disturbando la sorella e facendo arrabbiare i genitori, non volendo fare i compiti né andare a scuola).
Ad un terzo livello di complessità che ingloba anche la questione della coppia genitoriale, il figlio potrebbe fare da specchio ad aspetti di ogni singolo genitore e alla funzionalità della coppia, cogliendo da un lato che la disoccupazione del padre si connota di tristezza, di frustrazione, di preoccupazione e tensione, particolarmente perché il padre faceva un lavoro artistico, creativo, che ha interrotto per accudire i figli. Conseguentemente Cesare manifesta le angosce di diventare povero o di abbandono (“da grande andrò a dormire sotto i ponti”, “mi butterò giù dalla finestra”). Dall’altro, sembra cogliere un forte investimento amoroso della madre che risulta però eccessivo in quanto escludente il proprio partner dalla vita intima. A questo livello Cesare rappresenta il portavoce di questioni genitoriali non affrontate riguardanti gli equilibri e i ruoli all’interno della coppia, cosi come le identità fantasmatiche implicite individuali di ciascun genitore.
Di seguito è proposto un esempio della posizione dell’analista che cerca di aprire il sistema (o il sistema diadico) ad una maggiore complessità e coerenza. In una seduta congiunta con il padre, dopo aver osservato per un po’ il solito gioco di guerre stellari e aver colto ancora una volta la noia e il fastidio nel padre, l’analista propose:
A: forse papà ha voglia di raccontare la storia di Dandy
Padre: (guarda l’analista con sorpresa e sorriso)
Cesare: (con sguardo di sorpresa e curiosità) chi è Dandy?!
Padre: Dandy è un personaggio di un fumetto inglese, mio favorito
Cesare: dai raccontamelo! Non me ne avevi mai parlato!
Padre (inizia a raccontare di questo personaggio e di qualche sua avventura, e Cesare lo ascolta meravigliato)
Questo scambio mostra un tentativo dell’analista di aprire la diade padre-bambino ad un altro modo di stare insieme attingendo ad una “risorsa” del padre, ad un suo interesse personale al fine di creare uno scambio comunicativo più ricco e allegro, cui il padre potesse partecipare maggiormente. Come risultato, gli scambi emotivo-comunicativi sono diventati più sereni e sintonizzati sulla scoperta di elementi vivaci, e forse Cesare ha percepito il padre riacceso nel gioco proprio attraverso un interesse suo personale che poteva essere condiviso anche con il figlio rendendolo partecipe di una cosa nuova.
Da segnalare inoltre che dopo alcuni mesi di trattamento con le sedute congiunte, il padre telefona all’analista chiedendo un appuntamento per sé solo. Nell’incontro confida che da anni ha un’amante e che ora la moglie l’ha scoperto. Ha spiegato che si sentiva “escluso” dalla moglie cosi impegnata lavorativamente, e quando la moglie rientrava a casa si dedicava solo ai bambini. Inoltre, si sentiva frustrato per non riuscire a trovare lavoro. In una seduta successiva ha commentato: “ho pensato che forse non solo mio figlio, ma anche io sono il maiale-cacca che ha tradito e rovinato la mia famiglia. E’ giusto che io mangi la cacca ora, anche se non voglio che la mangi mio figlio per colpa mia”.
Questa riflessione ha permesso di aprire a maggiore e coerente comprensione sia di cosa stesse accadendo a livello di coppia, sia nelle ricadute relazionali con i figli.
L’apertura al paradigma della complessità ha dunque consentito anche ai terapeuti di capire le grandi potenzialità che un cambiamento di sguardo comporta nel comprendere i problemi. Questa esperienza obbliga però ad interrogarsi su come integrare in maniera non implicita, corretta e coerente, il cambiamento delle premesse epistemologiche, il cambiamento di teoria della mente che ne consegue e le accurate scelte tecniche che devono rispondere al principio di coerenza interna (Gandolfi, 2013). Questa sarà la nuova frontiera che i terapeuti, non solo psicoanalisti, dovranno affrontare.
Paolo Milanesi, psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista SIPRe e IFPS, supervisore SIPRe e supervisore specialista in psicoanalisi del bambino.
Alessandro Cavelzani, psicologo clinico, psicoanalista, psicoterapeuta infantile, membro IARPP e SIPRE
Ricerca Psicoanalitica, (ISSN 1827-4625, ISSNe 2037-7851) anno XXVIII, n. 2, 2017
1 Menzioniamo tra gli altri, i lavori svolti nell’ambito della psicologia dell’età evolutiva da Rudolfh Schaffer (1984) e il suo gruppo di ricerca che già nella prima metà degli anni’70 ha affrontato con metodi etologici, e per la prima volta con tecniche di videoregistrazione, il rapporto madre bambino dichiarando esplicitamente di muoversi fuori dal paradigma riduzionista e adultocentrico, che fino lì aveva caratterizzato tutte le teorie dello sviluppo.
2 Come non citare Gregory Bateson (1984), che per primo ha formulato l’esempio dell’uomo che taglia l’albero grazie alle informazioni dell’albero stesso e forse proprio a partire da lì inizia la rivoluzione della teoria della complessità applicata al comportamento umano.
3 Per investimento intendiamo l’espressione profonda di sé attraverso l’altro quale oggetto di investimento. Nulla a che
fare con l’investimento pulsionale di matrice freudiana ma solo affermazione soggettuale significativa e significante per
come si è configurati nel momento dato.
4 Riferimenti desunti dal corso di superspecializzazione di coppia tenuto alla SIPRe di Milano nel 2011
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