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Il bambino clinico e il bambino osservato di Daniel Stern

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Paolo Milanesi, Daniela De Robertis*
Il bambino clinico e il bambino osservato di Daniel Stern. L’attuale esigenza di andare verso il bambino contestuale**

Il grande lavoro prodotto da Daniel Stern nel corso della sua vita approda a una prima significativa sintesi omogenea con la pubblicazione del celeberrimo Mondo interpersonale del bambino, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri nel 1987, già uscito in edizione originale negli Stati Uniti due anni prima. Da allora le edizioni di quel testo si sono succedute e hanno raggiunto fama internazionale. Come tutte le grandi opere, anche questa non sorgeva d’improvviso e dal nulla, ma era frutto di un cospicuo lavoro che negli anni precedenti aveva caratterizzato l’operare in sordina di diversi specialisti dell’infanzia. Ci riferiamo all’infant research (Rodini, 2004), un filone di ricerca che, sorto nell’America del nord sul finire degli anni settanta, ha visto riuniti vari studiosi provenienti da diversi ambiti disciplinary – quali in primo piano la psicologia dello sviluppo, la psicologia cognitiva e la psicoanalisi – accomunati dal reciproco interesse per la comprensione del neonato e del bambino.
La piattaforma comune di tale ricerca nasce storicamente da un’esigenza condivisa: questi studiosi, insoddisfatti della lettura che i modelli psicoanalitici sullo sviluppo del neonato e del bambino restituivano, vollero approcciare questo tema osservando il bambino stesso nel suo ambiente naturale e all’interno degli scambi interattivi che ingaggiava con la madre, accompagnando e adottando nell’osservazione un metodo empiricamente fondato e rigorosamente scientifico. Le ricerche e gli studi si susseguirono a ritmo elevato e nacque così nella developmental research, oltre ad altre modalità osservative, un paradigma di ricerca chiamato “paradigma preferenziale di coppia comparata”. Esso consisteva nel proporre al neonato coppie di stimoli e verificare le sue risposte e reazioni (Stern, 1985). Ad esempio, nel proporre due odori, uno del latte materno e l’altro del latte di un’altra donna, era agevole osservare in quale direzione il neonato dirigesse preferenzialmente il volto: dalle risultanze empiriche fu possibile verificare che i poppanti si rivolgevano costantemente verso il latte materno, deducendo che i neonati posseggono una competenza relativa sia al riconoscimento che alla preferenza di determinati stimoli (Mac-farlane, 1975). Altrettanto dimostrarono le osservazioni che adottarono stimoli, oltre che olfattivi, visivi, tattili, uditivi e cenestesici, analizzando le risposte non solo in base agli indici comportamentali, ma anche in base agli indicatori fisiologici, come l’analisi delle variazioni del ritmo cardiaco. Attraverso questo tipo di metodologia investigativa i ricercatori avevano brillantemente individuato un modo per “chiedere” direttamente al neonato cosa preferisse e così accadeva che ogni nuovo stimolo che i ricercatori sottoponevano all’indagine trovava un neonato pronto a mostrare preferenze e abilità.
Il merito storico che va riconosciuto agli psiconeonatologi, pionieri della ricerca sulla primissima infanzia a partire dagli anni ’50, non riguarda solo la loro creatività metodologica nell’inventare inedite procedure sperimentali, come ad esempio l’apparecchiatura che attraverso i ritmi della suzione registrava la competenza dell’infante nel focalizzare le immagini (Siqueland, Delucia, 1969), ma soprattutto la qualità dell’assetto assunto dall’osservatore, il quale, capace di decentrarsi dalla propria posizione adultocentrica, allestisce “domande” che sono strutturate a partire dalle capacità di risposta di cui il bambino piccolo è in possesso e che funzionano da codici di comunicazione nell’economia della sperimentazione.
Fu così che nel corso degli anni venne raccolta un’estesa batteria di dati sulle competenze e le capacità del neonato e il piccolo dell’uomo che emergeva da questi studi non combaciava affatto con quello descritto dai modelli delle scuole psicoanalitiche tradizionali. Tuttavia i risultati all’interno della gran mole dei dati raccolti dagli studi dell’infant research rimanevano poco integrati, a volte in apparente contraddizione tra loro, altre volte semplicemente non in connessione, sia perché non tutte le ricerche erano oggetto di pubblicazione, sia perché non tutti i ricercatori erano reciprocamente in rete. Insomma ci volle tempo perché fosse possibile integrare la mole dei risultati sperimentali, dalla cui complessità potesse emergere un significato unitario e coerente e gettare così uno sguardo nuovo e rivoluzionario, complessivamente orientato sul bambino e sulla comprensione del suo sviluppo.
Bene, fu proprio Daniel Stern che con grande e creativa capacità di sintesi riuscì a compiere questa impresa e lo fece scrivendo Il mondo interpersonale del bambino.

 

L’idea tradizionale di sviluppo in psicoanalisi

 

Non rientra nelle finalità di questo contributo presentare un’esauriente disamina dei vari modelli psicoanalitici dello sviluppo. Ci limiteremo a cercare di individuare quelle peculiarità alla base delle teorie sullo sviluppo che funzionano da costanti trasversali ai vari modelli. Sosterremo in un secondo momento come il paradigma proposto da Daniel Stern abbia sovvertito tali modelli, proprio in riferimento a queste costanti, pur continuando a mutuarne, sebbene implicitamente, alcune implicazioni.
Nonostante la loro diversità, la maggior parte dei modelli psicoanalitici sullo sviluppo è rimasta fortemente condizionata dalle concezioni di Freud in merito alla “formula” dello sviluppo. L’idea che l’evoluzione psicologica sia sequenziale deriva dagli studi di Freud sull’embriologia della fine del diciannovesimo secolo (Sulloway, 1979), basati sull’idea che passaggi predefiniti dello sviluppo embrionale conducano verso un organismo maturo.
In quale modo l’embrione arrivasse a costituire la sua organizzazione finale allora non era delucidabile, tuttavia era accreditata la convinzione che ogni passo nella sequenza di sviluppo facesse parte di un processo ordinato. Inoltre si riteneva che specifiche lesioni dell’embrione producessero necessariamente specifiche modificazioni evolutive successive, foriere di esiti patologici. In realtà, il collegamento tra lesione e risultato non è così certo come si postulava al tempo e come credeva anche Freud, perché il dispiegarsi dello sviluppo su una base prescrittiva di ordine genetico, connotante i primi studi embriologici, non è poi così scontato e accertabile, risultando anche esito legato all’ambiente contingente dell’embrione, variabile maggiormente incidente di quanto si credesse fino a poco tempo fa (Oyama, 1998; Dusheck, 2002).
Com’è noto, Freud ipotizzò che certi tipi di esperienza infantile rappresentassero le premesse della nevrosi dell’adulto e pensò che un sintomo di origine psichica non potesse essere eliminato finché non si fosse risaliti alla sua origine ed al suo sviluppo. Dunque ciò che portò Freud a esplorare e teorizzare lo sviluppo psicologico fu una combinazione tra il suo costante interesse per l’embriologia e l’assunto che l’origine delle nevrosi giacesse nell’esperienza infantile precoce. Freud distinse la psicoanalisi dalla semplice analisi di fenomeni psicologici compositi, dichiarando che essa «consiste nel risalire da una struttura psichica ad un’altra che l’ha preceduta nel tempo e dalla quale essa si è sviluppata» (Freud, 1912-13, p. 183) e inventò delle tecniche di trattamento che avevano l’obiettivo di ricostruire e comprendere la natura delle esperienze precoci.
Pertanto i fondamenti alla base della comprensione dello sviluppo del bambino furono essenzialmente le ricostruzioni cliniche effettuate attraverso l’analisi di pazienti adulti nevrotici e la visione freudiana del rapporto tra sviluppo, psicopatologia e trattamento si fondò sull’idea che la psicopatologia fosse il risultato di qualcosa di “andato male” nel corso dello sviluppo: specifici fallimenti nello sviluppo esitano in specifiche patologie, nello stesso modo in cui specifici danni embrionali esitano (o almeno si credeva esitassero) in specifiche lesioni nell’organismo maturo (Sulloway, 1979).
Bisogna tuttavia riconoscere a Freud l’ammissione che le ricostruzioni del passato attraverso l’analisi comportano inevitabilmente delle distorsioni e di conseguenza egli raccomandò d’integrare i dati raccolti dalla psicoanalisi con l’osservazione diretta dei bambini (Freud, 1905) e il caso del piccolo Hans (Freud, 1908b) costituì una pietra miliare in tal senso. Quindi la posizione freudiana, sostenendo che, proprio in ragione del fatto che i resti del passato visibili nell’adulto non possono equipararsi a quella realtà in atto nel bambino nel momento in cui egli si sviluppa, induce a considerare, a differenza di un “passato reale”, sebbene inattingibile, l’importanza che detiene il “passato psichico” (Tyson, 1990). Il passato psichico, secondo il linguaggio di Freud, riflette l’influenza del conflitto e delle difese in misura maggiore di quanto possa restituire un resoconto fedele della realtà storica e quindi il significato psicologico delle esperienze precoci può anche non essere apprezzabile in status nascendi, ma diventare evidente, come una sorta di tempo due o di differimento, solo nella vita successiva. Per questo motivo la teoria psicoanalitica non avrebbe potuto svilupparsi soltanto dall’osservazione diretta del bambino, ma esigeva e chiamava direttamente in causa anche e soprattutto il metodo storico-clinico, affiancato dallo studio dei processi mentali inconsci. Di fatto é essenzialmente attraverso questi ultimi che si ritenne possibile arrivare a comprendere l’impatto delle primissime esperienze di vita sullo sviluppo. Un metodo, oggi definibile come retrogrado, non esente dal fraintendimento di localizzare in un comportamento successivo la presenza degli elementi responsabili della sua origine. Ad esempio, un rapporto di dipendenza in età adulta viene considerato semplicemente una ripetizione del rapporto primario del soggetto con la propria madre.
In tal modo la psicoanalisi, attraverso le ricostruzioni cliniche narrative dell’analisi degli adulti, riconfermava se stessa in modo circolare e autoreferenziale. È noto in quale misura il sistema concettuale freudiano sia fondato sull’esclusione di qualsiasi genere di prove e controlli che esso stesso nel suo interno non decreti, ritenendo superfluo qualsiasi referente probatorio che si collochi oltre la circolarità interna tra il livello teorico e il livello clinico. Si tratta di ciò che lo stesso Freud definì lo Junktim, nel quale le successive letture storico-critiche hanno identificato il vizio epistemologico che genera il circolo vizioso della teoria che riconferma i dati clinici e dei dati clinici che riconfermano la teoria (De Robertis, 1994).
È la posizione che emerge tra le righe quando nel 1920 Freud (1905), nella prefazione alla quarta edizione dei Tre saggi sulla teoria sessuale, sottolinea che, malgrado altri studiosi avessero osservato le manifestazioni della sessualità infantile, il significato essenziale della vita libidica del bambino emergeva soltanto dallo studio psicoanalitico dell’inconscio, vale a dire dall’analisi degli adulti. Aggiunse anche che se l’umanità fosse stata in grado di imparare direttamente dall’osservazione dei bambini, non sarebbe stato necessario scrivere i tre saggi (Freud, 1905).
Non meno importante e significativa è stata la concezione patomorfa dello sviluppo, derivata da questi concetti. Ne è conseguito che alla psicopatologia dell’adulto è stato automaticamente attribuito il ristretto significato di persistenza o ricomparsa regressiva delle esperienze precoci dello sviluppo, con l’inevitabile conseguenza di concepire lo sviluppo in termini patologici. In tal modo i residui del funzionamento psichico precoce sono stati considerati prove cliniche di disturbi, considerati tanto più gravi quanto più precoci. In modo speculare e per certi aspetti inverso, possiamo inquadrare un problema forse ancora più diffuso relativo al pregiudizio adultomorfo dello sviluppo, che già lo sguardo critico di Peterfreund (1978) aveva individuato. L’osservatore attribuisce ai fenomeni che si presentano nell’infante funzioni o competenze che in realtà non esistono ancora; un esempio tra i più vistosi e più condizionanti le tradizionali teorizzazioni psicoanalitiche è l’affermazione di Melanie Klein (1958), in base alla quale il comportamento del piccolo dell’uomo al seno esprime un’attività fantasmatica, mentre i risultati di ricerche, anche posteriori, indicano che le capacità psichiche necessarie al dispiegamento dell’immaginazione e alla produzione di fntasie sono disponibili soltanto in età successive (Meltzoff, 1992; Emde, 1978, 1983).
Com’è facilmente comprensibile, tali pregiudiziali non potevano rimanere confinate nei ranghi della teoria, ma ebbero pesanti ricadute abbattendosi e coinvolgendo anche la clinica psicoanalitica che importò e imparò a usare i modelli teorici dello sviluppo come una guida euristica nella comprensione degli analizzandi. Fu così che gli analisti, convinti che lo sviluppo seguisse una specifica direzione psicopatologica e che i progressi terapeutici potessero essere descritti in ordine al livello di sviluppo dell’individuo, confermarono in modo circolare e autoreferenziale la teoria stessa, nonché il metodo e la tecnica di intervento.
Esperienze di apprendimento e insegnamento, come ad esempio l’apprendimento motorio o quello della scrittura e della lettura, ben si prestano, almeno formalmente, all’idea di quanto possa essere attraente e convincente una concezione dello sviluppo secondo linee ordinate e sequenziali. Sono modelli che sembrano organizzare e dare senso a una molteplicità disparata di dati, rendendo chiara la comunicazione tra gli addetti ai lavori e fornendo potenti strumenti per comprendere, sebbene apparentemente, il mondo psicologico. Il paradigma dello sviluppo sequenziale è stato, e per certi versi continua a esserlo, così radicato e pervasivo da esercitare una forte attrazione. Ma, oltre a fornire queste garanzie e “comodità”, il modello di base di Freud è sopravvissuto anche perché in parte non ha avuto nessun concorrente significativo e in parte perché, a causa delle loro analisi personali, la maggior parte degli analisti era convinta dell’impatto che le prime esperienze potevano contrarre sullo sviluppo successivo.
Questa convinzione di base personalmente esperita è andata poi a confondersi e a legarsi con il concetto molto più sofisticato e teoricamente argomentato dello sviluppo sequenziale su cui si è fondato il lavoro di Freud e dei successivi investigatori psicoanalitici.
Un lavoro che ha restituito un paradigma dello sviluppo infantile non solo profilato sulla sagoma dell’adultomorfismo e del patomorfismo, ma anche costruito su un metodo retrogrado, che va all’indietro invece di procedere in modo anterogrado, coerentemente con quanto l’andamento dello sviluppo richiederebbe. Inoltre l’eccessiva enfasi attribuita alle esperienze primarie, insieme alla complicità del concetto di fissazione e regressione, anche in questo caso conduce al paradosso di concepire i vettori evolutivi in modo interrotto e statico, aderendo all’idea che “i giochi siano fatti”, laddove staticità e ripetizione sono morfologie che, in ogni caso, mal si accordano con il concetto di evoluzione e di sviluppo, che generano l’ossimoro di uno sviluppo senza sviluppo e che confliggono con la logica secondo la quale il più semplice non può spiegare il più complesso.
Tornando alla storia dell’approccio psicoanalitico classico alla prima e alla seconda all’infanzia, in esso è possibile individuare due distinti periodi: inizialmente il modello si basò sulla ricostruzione dei periodi precoci alla luce dell’esperienza clinica con pazienti nevrotici adulti e in questo senso la patologia fu definita il risultato del deragliamento dalle normali sequenze evolutive. A ciò seguì un secondo momento in cui il fulcro del dibattito psicoanalitico sullo sviluppo si focalizzò su quale dei diversi modelli di sequenza fosse più utile alla concettualizzazione, tanto della crescita normale, quanto di quella disturbata (Galatzer-Levy, 2004).
Di fatto in queste due sequenze storiche è agevole distinguere un primo tempo in cui Freud (1905, 1908, 1908a, 1914, 1915-17, 1922, 1925), ma anche Abraham (1924) e Reich (1933), aprirono la strada alla descrizione dell’impatto che determinate problematiche esercitavano sull’andamento dello sviluppo, fornendo una descrizione dettagliata dei disturbi nosografici e del tipo di carattere in base alle variazioni dello sviluppo.
A questa fase storica ne è seguita una seconda in cui i teorici psicoanalitici, elaborando queste prime idee, misero a punto vari modelli di sviluppo, focalizzando spesso aspetti della crescita evolutiva precedentemente sottaciuti, allo scopo anche di correggere e di ampliare i limiti in cui ritenevano fossero incorse le precedenti teorizzazioni. Ad esempio, Abraham (1924), seguendo l’indirizzo dato da Freud, approfondì e lavorò sulla cornice della fase orale ed anale, individuando in ognuna di esse la componente sadica. Ferenczi (1913), che s’interessò al senso di comprensione della realtà, estese la sfera della teoria dello sviluppo ad alcuni versanti, ripresi poi dalla psicologia dell’Io; mentre Melanie Klein (1928, 1933, 1948), attribuendo un rilievo centrale alla vita fantasmatica, sostenne che già nelle prime settimane di vita il lattante vivesse delle vicissitudini di aggressività e di rabbia, mettendo in atto proiezioni e identificazioni.
Benché questi autori abbiano descritto sia le sequenze “normali” di sviluppo, sia le variazioni e la conseguenza di queste variazioni per la vita psicologica successiva, tuttavia la strategia di base è rimasta simile a quella di Freud: M. Klein (1928, 1935, 1945, 1950, 1957), Winnicott (1945, 1953, 1958,  1960a,  1960b,  1965,  1974),  Mahler  (1963,  1975),  Kohut  (1966, 1971, 1977), Gedo e Goldberg (1973) sono gli esponenti più di spicco, ma non certo gli unici, tra coloro che hanno seguito questo tracciato.
Dopo il passaggio al modello tripartito, Freud ebbe a sostenere in che misura sia gli aspetti innati che quelli ambientali svolgessero un ruolo di importanza  variabile  nella  formazione  delle  tre  strutture  (Freud,  1922, 1925). Partendo dall’impianto strutturale, Hartmann (1939, 1954), Anna Freud (1936) e Spitz (1958, 1959) furono tra i primi ad approfondire il ruolo rispettivamente giocato dall’es, dall’Io e dal super-Io nel quadro evolutivo. Sempre ad Hartmann (1939) e più tardi anche a Winnicott (1956) si deve il merito di aver cominciato a distinguere in modo più articolato l’impatto sui processi di sviluppo delle variabili innate e costituzionali da quello delle variabili esperienziali e ambientali. Il rapporto madre-bambino divenne quindi un importante ambito d’indagine e studio, man mano che gli analisti riconoscevano il contributo fondamentale della madre (l’ambiente) alla formazione della struttura psichica. Come risultato di questo febbrile lavoro orientato sull’asse del rapporto d’oggetto, emerse ad opera di Anna Freud  (1951),  di  Melanie  Klein  (1928,  1933,  1952a,  1952b),  di  Spitz (1958) e di Mahler (1963, 1975), una sequenza evolutiva dei rapporti oggettuali modellata non sull’individuazione delle fasi libidiche, bensì delle fasi di evoluzione del rapporto madre-bambino. Fu a questo punto che si poté attribuire legittimità di cittadinanza anche agli eventi del periodo preedipico e alle esperienze della prima infanzia.
All’interno di quest’opera revisionistica, Anna Freud (1965) ha sostenuto che la totalità dello sviluppo, piuttosto che i suoi particolari, merita un posto centrale nel pensiero analitico. Il concetto di linee evolutive nasce dalla constatazione che lo sviluppo concordante, spiegato in riferimento all’es, all’ Io e al super-Io, come appare nel lavoro di Abraham, si adatta poco alle osservazioni dei bambini, mentre risulta di fondamentale importanza l’interazione delle linee di sviluppo ancor più delle singole linee stesse. In base alla sua esperienza clinica, Anna Freud sostiene che la correlazione tra lo sviluppo del bambino e le norme tipiche di una data età non ha permesso di fornire uno schema capace di spiegare sia l’infanzia “normale” sia quella disturbata, sostenendo invece che la caratteristica centrale della psicopatologia dell’infanzia è globalmente ascrivibile al fallimento del progresso evolutivo. Infatti quando lo sviluppo progredisce, anche se si discosta da una norma, il bambino ha svolto il compito psicologico principale dell’infanzia, quando non progredisce il bambino è disturbato, anche se i sintomi o altri indizi patologici risultano assenti. Ma, nonostante questo revisionismo critico, anche Anna Freud condivideva con i precedenti teorici l’assunto secondo cui l’evoluzione psicologica si muove verso un obiettivo finale, relativo al “destino della pulsione” come termine dello sviluppo.
Con la crescente importanza attribuita ai primissimi anni di vita, i problemi inerenti all’approccio ricostruttivo si fecero ancora più evidenti e gli studiosi cercarono altri metodi utili a comprendere lo sviluppo precoce. Oltre all’apertura della possibilità di analizzare i bambini via via sempre più piccoli, si inaugurò anche la prassi di osservare i bambini direttamente, al di fuori del processo clinico: Melanie Klein partendo dall’osservazione dei propri figli (Grosskurt, 1986), Anna Freud attraverso l’apertura delle Hampstead War Nurseries, un centro per lattanti e bambini rimasti orfani di guerra, Spitz, poco dopo la seconda guerra mondiale, inaugurando i noti studi osservativi sui lattanti istituzionalizzati, che pur essendo accuditi materialmente, ricevevano scarsi stimoli affettivi. Le descrizioni di Spitz degli effetti di questo tipo di deprivazione fornirono nuove informazioni che lo portarono a formulare una teoria genetica della formazione dell’Io che tanto ha influito sulla successiva teorizzazione psicoanalitica dello sviluppo (Spitz, 1959).
Margaret Mahler fu un’altra studiosa dell’infanzia nell’area psicoanalitica che teorizzò un modello di sviluppo di notevole influenza, in particolare per quanto riguarda l’evoluzione dei rapporti oggettuali all’interno della relazione madre-bambino. La Mahler e i suoi colleghi studiarono longitudinalmente e osservarono direttamente bambini e madri normali nei primi tre anni di vita, giungendo a teorizzare una graduale progressione nell’acquisizione da parte del bambino della capacità di creare una rappresentazione integrata della madre e parallelamente un senso di sé, unico, stabilmente rappresentato a livello psichico e distinto dall’oggetto d’amore primario. Il progresso evolutivo fu dunque concettualizzato nei termini di un processo di “separazione-individuazione” del bambino (Mahler, 1975); “separazione” quale rappresentazione di sé distinta da quella della madre e “individuazione” quale processo di assunzione di proprie caratteristiche individuali e uniche. Nell’indagare le graduali acquisizioni nello sviluppo dei rapporti con gli oggetti e la natura di questi movimenti progressivi, furono individuate quattro sotto-fasi della separazione-individuazione che, secondo gli studi della Mahler, avrebbe inizio intorno ai 4/5 mesi di vita; mentre le due sottofasi precedenti, una nelle prime quattro settimane di vita e l’altra dal secondo al quarto/quinto mese, furono rispettivamente concepite come “fase autistica normale” e “fase simbiotica normale”. Per quanto gli studi della Mahler fossero basati su un lavoro di ricerca longitudinale, non c’è dubbio che la sua teorizzazione connotata da metafora retrospettive, quali “autismo”, “simbiosi”, “barriera agli stimoli”, “confini comuni deliranti”, “fusione onnipotente somatopsichica allucinatoria” (Mahler 1975), denunciano un approccio retrogrado nei confronti dello sviluppo, nonché il radicamento nella clinica patologica dell’adulto e non da ultimo il tributo al narcisismo primario introdotto da Freud. Tali metodi di ricerca furono in seguito criticati (Brody, 1982; Stern, 1985) a vari livelli, ravvisando anche nei procedimenti sperimentali la persistenza ad usare le ipotesi come fossero conclusioni e anche in questo caso testimoniando in quale misura la tendenza autoreferenziale della psicoanalisi abbia contagiato anche la ricerca osservativa.
Inoltre le concettualizzazioni della Mahler sembrano esclusivizzare e mitizzare il processo di autonomizzazione del bambino, quasi a ipotizzare la dissoluzione dei rapporti interpersonali quale desiderabile esito verso un’autonomia assoluta e idealizzata del processo di sviluppo.
Nonostante i meriti pionieristici di alcuni studiosi dell’infanzia nell’impiego dell’osservazione diretta, nell’uso di procedure euristiche progettate e nell’adozione di un sistema di controlli sulle variabili processuali attraverso studi longitudinali, come attestano i lavori di Spitz e della Mahler, bisogna però riconoscere che questo tipo di ricerca empirica sul bambino ha avuto scarsa efficacia nel produrre modelli sullo sviluppo intrinsecamente innovativi. Le ragioni di questa debole incidenza riposa sulla considerazione che autori come Anna Freud, Melanie Klein, Spitz, Mahler e Winnicott, ai fini della costruzione di un modello psicologico del bambino, procedono nel solco della tradizione classica nell’attribuzione prioritaria a quella specifica forma di conoscenza che si realizza all’interno della relazione clinica; e questo vale tanto con il bambino quanto con l’adolescente o con l’ adulto.
Winnicott (1957) sosteneva che la sola osservazione diretta non è in grado di costruire una psicologia della prima infanzia. Stern sarebbe stato d’accordo con quest’affermazione, ma non con le conseguenze che essa ha prodotto in ordine ai costrutti teorici che ha generato. Ormai famoso e metodologicamente pregnante è il seguente passo di Stern che fonda tanto la linea di demarcazione, quanto il focus integrato, tra i due approcci: Nel corso della pratica clinica (soprattutto con pazienti adulti) le teorie psicoanalitiche hanno ricostruito “un bambino” diverso da quello che viene osservato dagli psicologi (…) io lo definisco “bambino clinico”, da non confondersi con il “bambino osservato” il cui comportamento viene preso in esame nel momento stesso in cui si produce. (…) entrambi i punti di vista sono indispensabili. Il bambino clinico infonde una vita soggettiva nel bambino osservato, mentre il bambino osservato serve come punto di riferimento per le teorie generali da cui è possibile inferire la vita soggettiva del bambino clinico (Stern, 1985, pp. 30-31).
A Stern va il merito di aver coniugato concretamente i “due bambini”, inaugurando una collaborazione che, nonostante le dichiarazioni d’intento da parte della psicoanalisi, fino a pochi anni prima era impensabile.
Ma orientiamo lo sguardo anche ad altro tema che ha animato il dibattito evolutivo e che si riferisce al concetto di completamento dello sviluppo.
Erik Erikson (1950, 1882), allievo di Anna Freud, ha impresso allo studio dello sviluppo una nuova direzione nel momento in cui ha denunciato e individuato il limite della concezione freudiana nel ritenere lo sviluppo completato con la risoluzione del complesso edipico, seppur contemplando alcune modificazioni durante la pubertà.
Su questo tracciato anche altre voci, come Peter Blos (1962, 1979) e Anna Freud (1957), hanno suggerito che anche l’adolescenza è un periodo di ulteriore sviluppo, tuttavia anche questi autori, eredi di un’immagine di sviluppo intesa come spostamento verso un completamento o un termine, hanno dichiarato che lo sviluppo psicologico e quello fisico terminano entrambi nella tarda adolescenza, mentre Erikson ha esteso la continuità dello sviluppo a tutto il life span (Erikson, 1882).
Insieme ad Erikson è doveroso includere anche Jung (1954), che ha contestato l’idea dello sviluppo come limitato nel tempo e a cui va attribuita la paternità di aver concepito l’evoluzione come trend presente lungo tutto l’arco di vita.
Uno sguardo complessivo su questi modelli, rispetto al criterio che presiede alla scansione delle varie fasi, mette in luce che essi possono essere considerati – ad eccezione del modello di Anna Freud – variazioni dello schema di sviluppo di Abraham (1924). In relazione a questo aspetto, anche analisti, per certi versi innovatori come Erikson (1950), Gedo e Goldberg (1973), prendono a prestito tale criterio: di fatto nei loro modelli lo sviluppo è descritto come il verificarsi di una serie ordinata di tappe e passaggi, approssimativamente correlati all’età del soggetto, all’interno di uno schema evolutivo secondo il quale la raggiunta realizzazione di ogni passo è condizione necessaria per il conseguimento del passaggio successivo.
Numerose controversie psicoanalitiche si sono focalizzate su quale di questi modelli, così simili nel costrutto sopra esposto, fosse da considerare il più soddisfacente. E così il dibattito si è modulato sulla preferenza accordata a Melanie Klein rispetto ad Anna Freud o, in tempi più recenti, a Kohut rispetto a Kernberg (1996) o, più globalmente, alla psicologia dell’Io rispetto alla psicologia del Sé: polemiche, preferenze, oscillazioni che hanno accompagnato gran parte della storia del postfreudismo e che risultano inquadrabili nella problematiche legate alla scelta dello schema sequenziale più accreditabile.

 

Conseguenze del paradigma di Daniel Stern sui modelli psicoanalitici

 

Nonostante la varietà dei modelli psicoanalitici che si sono susseguiti nel tempo, possiamo riepilogare alcune variabili comuni che sono rimaste costanti, anche se più o meno enfatizzate a seconda del riferimento specifico, ma ugualmente dettate da analoghi presupposti epistemici. Sintetizzando, esse sono:

  • una concezione adultomorfa, patomorfa e retrospettiva dello sviluppo.
  • una concezione che postula un’origine dello sviluppo a partire da una condizione di indifferenziazione, debitrice del concetto freudiano di narcisismo primario, e che dipinge un neonato pressoché privo di competenze cognitivo-emotive.
  • una concezione della progressione regolare dello sviluppo, precostituita e ben definita nel tempo, di fasi e tappe successive che hanno termine nella seconda infanzia con il superamento del complesso edipico o eventualmente con il finire dell’adolescenza. Il soddisfacente superamento di ciascuna fase risulta essere un prerequisito essenziale affinché si possa accedere alla fase successiva e, soltanto assolto questo prerequisito, la fase precedente risulterà abbandonata in modo definitivo.

La ricerca di Stern (1985) e il lavoro di aggregazione e attribuzione di senso che egli ha operato sull’imponente mole di dati che l’infant research ha prodotto negli ultimi 30-40 anni, ha scosso le fondamenta dei modelli psicoanalitici e ha cambiato in modo radicale le conoscenze sul mondo infantile (Lavelli, 2007). Nell’area psicoanalitica i primi cambiamenti sulla concezione dello sviluppo sono avvenuti in seguito all’adozione di un’inedita procedura di ricerca che non si è limitata quasi esclusivamente all’uso del metodo inferenziale – come avveniva precedentemente attraverso l’impiego di casi clinici, con il risultato di inferire i dati sul neonato da campioni di pazienti adulti (o anche di bambini più grandi) con situazioni psicopatologiche, come abbiamo ampiamente documentato – ma che ha indagato con un metodo diretto la vita del bambino dalla nascita. Si scoprì così che il neonato non si limita a rispondere con una risonanza globale (Dazzi, 2000), ma mostra di possedere un vasto e specifico repertorio di competenze1. Questo spazio dilatato di conoscenze ha invaso le riviste scientifiche della comunità degli studiosi dell’infanzia, diventando presto di dominio comune. Ciò costrinse da un lato ad abbandonare l’idea precedentemente dominante di un neonato privo di organizzazione mentale attiva nei confronti dell’ambiente e dall’altro, vista la dotazione innata di competenze e strumentazioni orientate a mettere il bambino in relazione col caregiver, a porsi interrogativi sulla qualità delle cure ovvero sulla possibilità di influenzare l’andamento della crescita da parte delle figure di accudimento.
Ma il grande merito di Stern non si arresta qui, egli riuscì ad aggregare le risultanze dei suoi studi con quelle di altri ricercatori e, in un secondo momento, soprattutto attraverso la collaborazione con studiosi come Sander (2007, 1995), Tronick (1998, 2004) e Beebe (2002), produsse quello che nella carriera sterniana può essere considerato il fiore all’occhiello della riflessione psicoanalitica: ci riferiamo al passaggio logico e metodologico che egli operò quando agli inizi degli anni ‘80 orientò la sua ricerca sull’osservazione diretta dell’in-terazione tra il bambino e la madre. La virata ha permesso l’elaborazione di un modello teorico sullo sviluppo del bambino intrinsecamente innovativo, basato sul concetto di “sistema diadico”, che ha spinto tutta la psicoanalisi a profonde rivisitazioni.
Il bambino che emerge dal paradigma di Stern è attivamente impegnato, fin dall’inizio della vita, nella ricerca di stimoli e in grado di regolare, con il contributo materno, il loro eccesso o la loro carenza, per raggiungere livelli ottimali di stimolazione. Inoltre è in grado fin dalla nascita di sperimentare il processo di emergenza di un’organizzazione interna attraverso il collegamento di esperienze isolate per mezzo della percezione amodale e degli affetti vitali; ciò conduce alla configurazione di processi globali implicati nella formazione di un “sé emergente” (Stern, 1985).
Si parla quindi di un neonato non certo indifferenziato o confuso con l’altro, ma che, grazie ai feedback propriocettivi, al senso di volizione e alla prevedibilità delle conseguenze di un’azione, ha la capacità di percepirsi come un’entità’ fisica unitaria dotata di coesione, di volontà e di continuità, dotato di una vita affettiva propria e quindi in grado di distinguere le costanti che definiscono il “sé’ (nucleare) e l’altro (nucleare)”.
La teoria di Stern è strutturata intorno ai concetti di quattro differenti “sensi del sé” (emergente, nucleare, soggettivo e verbale), che si originano e si sviluppano attraverso esperienze soggettive organizzanti che danno coerenza e continuità all’esperienza e a cui corrispondono differenti e specifici “campi di relazione” in cui si esplicano particolari capacità di controllo corrispondenti al senso del sé caratterizzante ciascuna fase (Stern, 1985).
Un bambino predisposto all’interazione sociale che nei primi due anni di vita affronta cambiamenti cruciali e che si sviluppa lungo una sequenza epigenetica di compiti adattivi. Questi ultimi possono essere risolti solo attraverso la negoziazione e la riorganizzazione all’interno del sistema diadico madre-bambino: una progressione di compiti evolutivi rispetto cui la coppia madre-bambino è coinvolta in maniera congiunta e reciproca per conseguire l’adattamento.
Un neonato il cui sviluppo procede anche in modo discontinuo e dove i cambiamenti qualitativi potrebbero essere una delle sue più evidenti caratteristiche: (…) pur non essendoci dubbio sul fatto che i nuovi comportamenti adottati dal bambino per fronteggiare determinati problemi possano essere più evidenti e perfino spettacolari in certi periodi, appare probabile che la prevalenza relativa di aspetti proto clinici in una particolare età sia illusoria e scaturisca da esigenze e pregiudizi di ordine teorico, metodologico o clinico: che risieda, cioè, nell’occhio dell’osservatore piuttosto che nell’esperienza del bambino (Stern, 1985; p. 39).
Secondo Stern se manifestazioni cliniche importanti, che possono manifestarsi in tempi successivi, vengono isolate dal loro contesto e una fase evolutiva viene considerata cruciale per la sua risoluzione definitiva, il quadro del processo di sviluppo risulterà distorto con l’esito di descrivere possibili narrazioni cliniche, ma non bambini reali. Non esistono motivi convincenti per considerare i problemi clinici fondamentali come segni caratteristici rispondenti a fasi o stadi di sviluppo. Gli aspetti clinici sono presenti in tutto il ciclo di vita e non sono problemi specifici di una fase. È fuor di dubbio concordare con la critica che rimprovera la mancanza di verifiche sperimentali circa la correlazione tra danni o traumi psicologici subiti in una determinata età o fase evolutiva e specifici problemi clinici successivi. Anche in questo caso la presunta rispondenza è stata il prodotto del “vizio” endemico alla psicoanalisi, che ha invertito il nesso tra teoria e fatti, agendo come se non fosse la teoria a doversi adeguare ai fatti e a delegare al versante empirico-osservativo il potere di falsificazione o verificazione, ma fossero i fatti a doversi adattare alla teoria, con il risultato che le ipotesi teoriche, non messe alle corde e non sottoposte a prova, assurgano automaticamente a tesi.
Stern è stata la voce più sistematica e solerte nel denunciare tale difettualità epistemica, esortando gli psicologi evolutivi dal guardarsi dal rischio di produrre assunti retrospettivi adultomorfi e patomorfi: la teoria deve nascere dai dati e non viceversa e l’esperienza clinica può servire ad arricchire la conoscenza della vita soggettiva del bambino, ma non può sostituirsi alla teoria.
Conformemente a questo assunto nel paradigma di Stern le fasi evolutive sono sovrapposte per strati e non concepite come stadi critici ad esclusione reciproca. I problemi con i quali il bambino si confronta in un certo periodo non vengono radicalmente risolti per poi scomparire definitivamente oppure non rimangono irrisolti per poi trasformarsi in ineluttabili punti di “fissazione” o “regressione”. Le diverse fasi si costruiscono una sull’altra e in modo interdipendente, secondo un modello che prevede una costruzione continua dello sviluppo lungo l’intero ciclo di vita.
A proposito dei concetti di autonomia e d’indipendenza, Stern ha raccolto i risultativi di innumerevoli studi (Beebe e Stern, 1977; Stern, 1977, 1982, 1995; Beebe e Sloate, 1982) che dimostrano come i neonati, a pochi mesi di vita siano già in grado di esercitare un controllo rilevante sull’inizio, il mantenimento, la fine e l’evitamento del contatto sociale con l’altro; competenze attestate dalla capacità di distogliere lo sguardo, chiudere gli occhi, guardare altrove o assumere uno sguardo inespressivo. Mediante l’uso manifesto di questi comportamenti, i neonati possono respingere, prendere le distanze e “difendersi” dalla madre, così come, a seconda delle evenienze, possono impegnarsi in un nuovo contatto mediante sguardi, sorrisi e vocalizzi. In sintesi sono in grado di “regolare” la quantità di stimolazione sociale e impegnarsi o meno nella relazione con la madre . Rispetto al tema centrale dell’autonomia e dell’indipendenza, i comportamenti di regolazione del contatto sociale mediante l’espressività del volto dei primi mesi sono molto simili al modo in cui verso i nove mesi i bambini possono ottenere i medesimi scopi attraverso il comportamento motorio, allontanandosi o avvicinandosi alla madre e al modo in cui verso i due anni mettono in atto tali operazioni attraverso il linguaggio. Quindi il tema psico-clinico dell’autonomia e dell’indipendenza ricorre in tutti questi periodi dello sviluppo sia dal punto di vista del comportamento osservabile sia da quello dell’esperienza soggettiva, cosicché appare fuor di luogo impegnarsi a definire una fase specifica per il raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza. Raggiungimento che sembra invece correlato ai progressi nella maturazione di capacità cognitive e motorie che di per sé esulano dalla considerazione dell’autonomia e dell’indipendenza. Appare evidente la profonda diversità d’impostazione alla base di questa concettualizzazione rispetto ai costrutti mahleriani. La diversità si accentua in base all’implicita considerazione sterniana, secondo cui ciò che risulta fondamentale al raggiungimento dell’autonomia e dell’indipendenza non è tanto la presenza o meno nel bambino di un certo grado di “intenzionalità o costanza dell’oggetto” e neanche la disponibilità di funzioni simboliche o autoriflessive che gli permetterebbero di attribuire un significato agli stessi concetti di autonomia e indipendenza: la salienza della considerazione di Stern sta nell’evidenziare come il neonato, e poi il bambino più grande, possa “vivere” e “sperimentare” soggettivamente, fin da subito e direttamente per via implicita e procedurale, la propria autonomia e indipendenza.
Ciò che è in primo piano riguarda l’importanza delle precocissime esperienze di vita del neonato e l’uso che egli ne fa, pur in assenza di funzioni simboliche e autoriflessive. I sensi del sé emergente, nucleare e soggettivo definiscono la capacità del neonato di esercitare forme specifiche di attenzione sulla propria interiorità. Prima di queste scoperte si riteneva che la vita psicologica del bambino precedente i diciotto mesi di vita, cioè prima dell’insorgere delle capacità di simbolizzare e autoriflettere, fosse alquanto povera e tutt’al più popolata da sensazioni, fantasie, angosce e sogni. Si riteneva che il bambino piccolo non fosse capace di appropriarsi introspettivamente delle proprie azioni, perché non in grado di rappresentarle e riconoscerle come proprie, inabile a considerarne il significato. Certamente dopo i diciotto mesi la qualità dell’approccio ai vari aspetti della propria soggettività cambia considerevolmente e il bambino arriva progressivamente a “sapere di sapere”, cioè a compiere vere e proprie operazioni metacognitive, relative alla “coscienza e conoscenza della conoscenza”. Tuttavia le intuizioni di Stern hanno aperto la strada alla scoperta di ciò che è stata definita successivamente da Lyons-Ruth (1998) “conoscenza relazionale implicita”2. Si è compreso che fin dalla nascita i bambini hanno a disposizione una modalità di apprendimento interattivo basato sulla memoria procedurale ed è stato ampiamente documentato (Lyons-Ruth, 1998) che attraverso “l’azione” è possibile veicolare significati, nonostante l’assenza di capacità simboliche e autoriflessive (Rodini, 2004).
In altre parole, dopo la lezione di Stern, l’azione e il comportamento del neonato sono passati dall’essere prova di una vita psicologica di “serie B”, a testimonianza della ricchezza della vita interattiva del neonato stesso.
Un modello dunque, quello di Stern, sofisticato e complesso, che spalanca un altro punto di vista epistemico e demolisce i costrutti che vedono nello sviluppo una successione preordinata di specifiche fasi circoscritte e precisate nel corso dell’età e in diretto e lineare rapporto causale con entità cliniche.
Le concezioni sterniane sullo sviluppo, all’epoca riconosciute, ma anche contrastate, con il tempo hanno pervaso la teoria e la pratica clinica analitica (Fonagy, Target, 2001), innescando rilevanti conseguenze sul piano del metodo e della tecnica dell’intervento clinico, ricadute che, nell’economia di questo lavoro, possono essere qui di seguito solo sinteticamente accennate.
La questione centrale della clinica analitica potrebbe essere formulata nei seguenti termini: nella prassi terapeutica, a partire dal modello di sviluppo assunto come referente dall’analista, quale modo di procedere è utile a “muovere” il paziente da una posizione più “immatura” e disadattiva ad una posizione più “matura” e adattiva? In passato molti analisti lavoravano ritenendo che i vari passaggi dello sviluppo coincidessero con precisi e ben definiti eventi che si ripetevano nel processo analitico con l’adulto, tanto da essere usati come cartine di tornasole del buon procedere del trattamento. Secondo la concezione classica, per curare veramente, il trattamento avrebbe dovuto annullare gli effetti del mancato sviluppo, preferibilmente dando vita con cura e sensibilità ad una situazione o ad un contesto che si avvicinasse il più possibile ad uno sviluppo “ideale” procedente in assenza di disturbi.
Benché alcuni clinici mantengano ancora questa attitudine, la tendenza è diminuita nel corso del tempo e la maggior parte degli analisti è sempre meno disposta a far rientrare nelle teorie di riferimento le “vite dei loro pazienti”. Nonostante ciò è inevitabile che noi continuiamo ad ascoltare i racconti dei pazienti filtrandoli attraverso le teorie evolutive cui aderiamo o, quanto meno, attraverso riferimenti generali ad un implicito concetto di sviluppo.
Una delle questioni più rilevanti, non strettamente connesse al modello evolutivo, è rappresentata dall’interesse di Stern per la dimensione clinica e il rapporto della coppia analitica. A seguito degli stimoli di Stern l’assetto dell’analista e le sue modalità d’intervento hanno subito notevoli ampliamenti e revisioni: le concettualizzazioni del “momento presente” (Stern, 2004) e del “qualcosa di più dell’interpretazione” (Stern et al., 1998) attualmente assurgono a fattori non più eludibili ai fini del cambiamento terapeutico. Gli aspetti impliciti e procedurali dell’interazione, inconsapevoli ma non rimossi, così importanti nello sviluppo psicologico e nella configurazione dell’individuo, animano la scena analitica e si mostrano “lavorabili” anche semplicemente nel “qui e ora” dell’interazione psico-corporea analista-paziente, al di là delle narrative del passato e del linguaggio verbale.
Questo secondo periodo di Stern all’opera con i “bostoniani”, particolarmente centrato sulle implicazioni del setting con l’adulto, esula dal “bambino” sterniano che è il tracciato di questo articolo. Tuttavia il secondo Stern ci dà il modo di penetrare nella sua concezione del linguaggio, tematica che tocca tanto l’adulto quanto il bambino verbale.
Fin  dall’origine  del  suo  pensiero  per  il  nostro  autore  (Stern,  1985) l’emergenza e poi l’esercizio del linguaggio vanno a produrre una frattura tra l’area delle esperienze non verbali e quella delle esperienze verbali, intese rispettivamente come esperienze sentite ed esperienze rappresentate. Il codice linguistico, lineare, mediato, astratto e referenziale mal si presta a giudizio di Stern a veicolare l’esperienza interna che è “liquida”, globale, amodale, diretta e dinamica. Non solo viene sostenuto il divario tra i due codici, ma, fatto assai più rilevante, viene messa in discussione la stessa accessibilità dell’esperienza non verbale alla traducibilità linguistica. Nel bilancio di Stern questo è in sintesi il prezzo pagato dalla nostra specie al dono del linguaggio (Vivona, 2006). Posizione che nel “secondo” Stern verrà più pubblicizzata, andandosi a coagulare come essenza dei now moments, dei meeting moments (Stern, 2004) e del something more than interpretation (Stern et all., 1998).
Le critiche che ci sentiamo di muovere a Stern riguardo a questa sua posizione nei confronti del linguaggio si appuntano su due versanti: l’osservatorio parziale da cui Stern guarda il linguaggio e a cui attribuisce una difettualità intrinseca e la compromissione della globalità del lavoro del sistema-mente a cui ci sembra inevitabilmente approdino le sue considerazioni sul linguaggio. Con il primo punto intendiamo confutare la lettura sterniana che vede nel linguaggio il veicolo di un paludamento razionale a scapito dell’autenticità del sentire. Con ciò non intendiamo sostenere che il linguaggio non possa anche prestarsi a razionalizzazioni di copertura all’interno di un’economia del soggetto volta a silenziare l’intimità dei vissuti. Ma questo è una delle possibili declinazioni che il soggetto può impiegare nell’uso del linguaggio e Stern non distingue nell’area linguistica l’uso che il soggetto può operarne dalla funzione che il linguaggio espleta, con il risultato di confondere l’uso soggettivo dalla funzione categoriale. Il secondo aspetto di aggredibilità riguarda la cesura nei cui termini Stern cataloga il registro non verbale e quello verbale, come aree di non contatto, di non reciproca fruibilità. All’interno di un approccio globale e sistemico al soggetto, aree, registri o codici, seppur differenziabili per competenze e finalità, non lavorano indipendentemente, reciprocamente cesurati. Il concetto di cesura compromette alla radice la concezione sistemica pur proclamata da Stern, generando una vistosa contraddizione nel tessuto teorico. Affinché gli enunciati teorici risultino coerenti con il paradigma fondato sul soggetto come sistema complesso e sul lavoro globale della mente, bisogna tener fermo il punto che anche le aree linguistiche e quelle non linguistiche, funzionano come nodi messi in rete e di conseguenza lavorano in modo sinergico e non antagonistico, come invece la voce di Stern propone. In uguale misura nel lavoro globale della mente il codice implicito e il codice esplicito non sono autonomamente operativi, ma a causa dei relais che tutto il sistema va a strutturare, ciascun codice modifica e influenza l’altro. Qualsiasi cesura posta come premessa strappa lo scienziato dal dominio della complessità e introduce incoerenze nel bagaglio di chi lo proclama.

 

Il fantasma dell’adultomorfismo nei sensi del sé

 

Stern ha più volte precisato che i dati raccolti dal “bambino osservato” descrivono solo dei comportamenti esterni e nulla dicono di ciò che può essere l’esperienza interna o interiore del bambino. D’altro canto è innegabile che sia stato proprio l’interesse per l’esperienza interna a motivare il nostro studioso e ad attivare la sua ricerca, creando quella stigmate di originalità e eccellenza che lo ha distinto da tutti i precedenti ricercatori evolutivisti. Tuttavia siamo al cospetto di un tipo di ricerca in cui immediatamente prorompe quello che attualmente potremmo definire il big problem degli studi sull’infanzia e in particolare sulla primissima infanzia, area del non verbale. Si tratta dell’oggettiva difficoltà in relazione alle procedure d’inferenza da ciò che gli infanti fanno a ciò che essi “sentono” ovvero al problema che la filosofia della mente ha definito osservazione in terza persona e osservazione in prima persona. In altri termini stiamo parlando dell’opportunità che il ricercatore costruisca quel ponte che permetta il passaggio dal piano esterno, etologico-comportamentale, al piano interno, fenomenologicoesperienziale e quindi della messa a punto di un codice di traducibilità che traghetti la ricerca dall’osservabile al vissuto. Passaggio non facile, perché riferirsi all’esperienza del neonato e del bambino piccolo, a cosa sente, è argomento arduo che ci rimbalza in faccia, per certi versi, il mistero della soggettività della prima infanzia. È un’empasse che continua a limitare la ricerca e a cui, per consentire la suddetta inferenza, spesso si è cercato di ovviare con una risposta di aggiramento che però ha messo in campo l’analogia con gli stati mentali dell’adulto. Ne deriva quindi che il modello evolutivo, compreso quello di Stern e i suoi sensi del sé, non può non risultare inquinato dalle tracce dell’adultomorfismo. Quest’ultima è in sostanza la critica rivolta a Stern da Wolff (1994) il quale non esclude l’evenienza che tale analogia possa essere proficuamente utilizzata come punto di avvio per formulare ipotesi di ricerca empiricamente verificabili. Del resto è ammesso nella scienza in generale, in una fase iniziale della ricerca, l’uso di metafore che sono di ausilio allo scienziato in un momento di slopiness del pensiero. Ma qualora, prosegue Wolff, l’analogia risulti stabilmente adottata a seguito di un processo di articolazione concettuale che si fa carico di spiegare la teoria evolutiva degli stati soggettivi, quest’ultima, nel migliore dei casi, potrà produrre anche “buone storie” che però risulteranno essere proiezioni della teoria e delle osservazioni che si trovano nella mente dell’osservatore e non nel fenomeno osservato, dispositivi che non possono certo funzionare da strumento di verifica.
Critica dalla quale Stern si è difeso argomentando che nel suo modello, a differenza di quelli evolutivi di matrice psicoanalitica, l’impronta adultomorfa non è diretta filiazione né dal metodo ricostruttivo e retrogrado, né dal modello di adulto psicopatologico, ma deriva dall’esperienza soggettiva dell’adulto normofunzionale.
La risposta di Stern non confuta la critica, ne minimizza sicuramente a buon diritto la portata e, non da ultimo, sembra però giustificare e legittimare la manovra come obbligata. In definitiva la posizione sterniana che emerge da questa problematica, almeno verso la fine degli anni 90, sembrerebbe ritenere inevitabile ritrovare nella concettualizzazione del bambino stati mentali apparentati a quelli dell’adulto, sebbene ovviamente distinguibili, in qualità di precursori, per una morfologia meno complessa e meno articolata. Questo versante dell’argomentazione di Stern suscita una riflessione quanto mai attuale che preferiamo lasciare in forma aperta: è veramente inevitabile nello studio dell’infanzia passare, seppur in modo contenuto e controllato, attraverso l’analogia adultocentrica o è possibile superare il limite “proiettivo” ed “empatico” dello studioso per poter spiegare sempre più in presa diretta il bambino con “il bambino”?

 

Verso una concezione di sviluppo contestuale

 

Come già accennato, il lavoro di Stern ha avuto una portata rivoluzionaria nel falsificare aspetti ricorrenti alla base delle teorizzazioni dei modelli psicoanalitici sullo sviluppo e nel dibattere i referenti epistemici alla base di tale impianto. Di fatto, nel panorama generale del sapere l’epistemologia costituisce quei fondamenti alla base della conoscenza che rappresentano la forma mentis con cui approcciamo la conoscenza stessa e che agiscono sempre per via implicita, cioè non esplicitamente riconosciuta. Nessuno può pensare di esimersi dal teorizzare senza far ricorso ai presupposti epistemologici della sua epoca. Possiamo quindi provare ad individuare alcuni di tali presupposti sottostanti anche la teoria di Stern e intraprendere una critica costruttiva del suo pensiero teorico.
Nella misura in cui la teoria e la ricerca di Stern ruotano attorno al concetto di sé, proseguendo una tradizione non certo inaugurata da Freud, il cui uso del termine è stato sporadico e colloquiale, ma da Hartmann e Jakobson e proseguita poi con Winnicott e Kohut, è importante chiarire il significato di tale concetto per evidenziare alcuni malintesi sottostanti l’uso che Stern ne fa all’interno della sua modellizzazione. Come ha documentato Jervis (1984), esistono almeno due significati del concetto di sé: il primo soggettivo e fenomenologico, relativo al vissuto interiore ed esperienziale, al sentirsi; il secondo oggettivo, riferito al sé come entità, istanza, sostrato o struttura e che pone il sé in termini di reificazione e di sostanzializzazione. Gli innumerevoli vissuti esperienziali di sé che costituiscono per ognuno di noi la propria continuità nel tempo e nello spazio, sono rappresentazioni o immagini e quindi “costituenti” di qualche “struttura”, ad esempio della coscienza, della mente o del corpo: sono espressioni di una qualche forma di attenzione rivolta ai vari livelli della propria esperienza per come viene vissuta, ma non possono venire sovrapposti al secondo significato del concetto di sé; non sono cioè “strutture”. Ci pare che Stern non tenga pienamente conto della distinzione tra le due accezioni, con il risultato di sovrapporle e di conseguenza di operare una reificazione del sé esperienziale nel momento in cui assurge al ruolo di sé-struttura. La definizione del “sé emergente”, relativo ai primi mesi di vita e successivamente quella del “sé nucleare”, sebbene siano mirabili descrizioni dell’esperienza che si ritiene il neonato faccia in “presa diretta” con sé stesso in rapporto al proprio mondo, certamente non sono prova e nulla dicono sull’esistenza di un sé-struttura.
Non è da escludere che Stern, per stressare il versante fenomenologico, abbia rafforzato il sostantivo “sé” facendolo precedere dal termine “senso del”, strategia che sposta l’accento sull’esperienza interiore del neonato. Tuttavia la manovra non si dimostra un’utile garanzia, proprio perché i sensi del sé per Stern assurgono ugualmente al ruolo concettuale di strutture stabili, come attesta la logica che sottende la concettualizzazione dello sviluppo, inteso da Stern quale punto di arrivo intrinsecamente predefinito. Cercheremo di argomentare tale critica: anche se oggi in modo unanime viene storicamente attribuito a Stern il merito di aver confutato la concezione dello sviluppo come un susseguirsi preordinato di fasi, tuttavia egli lascia intendere che lo sviluppo del bambino abbia nel suo complesso uno scopo intrinsecamente preordinato e definito che sottende quindi una visione teleologica dell’essere umano, veicolando una concezione “idealizzata” dello sviluppo stesso. Di fatto è rintracciabile nel suo pensiero l’idea che l’evoluzione del bambino muova verso la costituzione di un “sé autonomo”, “compatto”, “coeso” e “indipendente”. Fin qui nulla da eccepire, il punto è che Stern concepisce questo processo come universale, assoluto e non legato al contesto. Questo risvolto è stato sensibilmente approfondito da Cushman (1991) dall’osservatorio del costruzionismo sociale. La critica che questo autore muove a Stern è quella di aver spacciato per spiegazione psicologica universale una psicologia “indigena”, ovvero una teoria sottesa da una determinata matrice socio-politica, il cui retrostante modello del sé è profilato sulle caratteristiche del sé presente nella società occidentale contemporanea. Ad esempio, l’emergere del “sé nucleare” – che avviene tra i tre e i nove mesi di vita – si organizza intorno all’esperienza palpabile del neonato di essere agente, di essere coeso, di sperimentare degli affetti e di avere continuità storica. Stern fa riferimento all’integrazione di queste quattro modalità di esperienza come a quattro “isole di coerenza” o “costanti del sé”, che rivestono un ruolo fondamentale per la salute psicologica dell’individuo. È facilmente percepibile la derivazione di queste costanti dai tratti caratteristici dell’attuale configurazione identitaria occidentale. Più in dettaglio, la costante che definisce il “sé affettivo nucleare” per Stern trova la sua spiegazione nel fatto che il neonato collochi i propri stati affettivi-cinestesici dentro di sé; ma questa collocazione interna non è dimostrata e la conclusione cui giunge non è giustificata se non dall’esigenza di collocare l’esistenza di stati affettivi internamente e non altrove. In tal modo l’esistenza di un sé compatto, separato e autonomo più che un accertamento sembra un’esigenza aprioristica.
L’argomentazione è applicabile anche ai comportamenti di “sintonizzazione” (Stern, 1985), che sono eventi prettamente relazionali, ma per Stern lo sono solo nella misura in cui permettono l’emergenza del “sé soggettivo”, che pare essere uno scopo intrinseco allo sviluppo. In altre parole, per Stern il comportamento sintonizzato del genitore non entra costitutivamente nella struttura del sé soggettivo, ma è solo il mezzo attraverso cui il sé soggettivo può trovare la sua strada che in definitiva pertiene unicamente al bambino e al dispiegarsi di un programma predefinito di sviluppo.
Cushman (1991), analizzando la “storia del sé” occidentale nel corso degli ultimi 2500 anni ed esaminando il modo in cui esso col tempo è andato assumendo una forma interiore compatta e controllata, sostiene che il sé si modifica nel corso del tempo e della storia, non a seguito del cambiamento di qualche aspetto della sua natura interiore o di qualche evenienza metafisica, ma perché fa parte di quello che Heiddeger (1977) chiama il “panorama” caratteristico di ogni singola epoca.
Ne consegue che il concetto di sé, adattandosi di continuo alle modificazioni degli orizzonti culturali, appare un artefatto sociale, il quale, facendo parte del contesto culturale, lo influenza ed è a sua volta da questo ricorsivamente influenzato (Morin, 2007).
In definitiva quello che Stern ha “ricercato” e “scoperto” è il concetto di sé vigente nella popolazione occidentale del tardo ventesimo secolo e i tratti che lo definiscono nel suo sviluppo sono quelli che gli permettono di funzionare nel contesto di questa particolare epoca. Il punto debole della posizione di Stern sta nel non aver ammesso che il sé che egli ha teorizzato è lo specchio del suo contesto; in assenza di questa ammissione è gioco forza che la sua teorizzazione sia acontestuale e quindi non schivi il rischio di presentarsi come una categoria universale.
Ma questo discorso contrae anche un’altra rilevante implicazione: se Stern avesse colto il fondamento epistemologico del costruzionismo sociale e del pensiero contestuale, sarebbe entrato più agevolmente nella logica del significato costitutivo che la relazione contrae per il soggetto stesso. Diversamente, pur concependo un essere umano che per svilupparsi necessita dell’altro, di fatto ne risulta svincolato per ciò che concerne l’esito finale dello sviluppo stesso in termini di “normalità” e di assenza di patologia. In tal senso normalità e patologia sono definite esse stesse in termini di assolutezza e universalità.
La  percezione  del  neonato  della  propria  separata  compattezza,  della continuità nel tempo ecc., viene definita da Stern come esito di un processo evolutivo universale, estendibile allo sviluppo di qualsiasi neonato. Al contrario ciò può essere il frutto di una tendenza tutta occidentale, convogliata quindi da un certo tipo di cure da parte del caregiver e non di un processo intrinseco allo sviluppo stesso e verso cui l’organismo tende in modo deterministico. Ne risulta che nel pensiero sterniano i contenuti dell’interazione madre bambino vengano confusi con la struttura del sé che, come già rilevato, è in realtà esperienza soggettiva interiore e non struttura. In questo senso Stern sembra non avvertire che nella costituzione del sé rientrano contenuti esperenziali che, passando attraverso l’interazione con la madre, sono contenuti di natura sociale; piuttosto egli interpreta questi ultimi come elementi universali invece che “possibili modi di interagire”, attraverso cui il neonato si configura nel suo contesto di vita. L’esito di questa inavvertenza finisce per sovrapporre inevitabilmente il livello dei contenuti con la natura del sé.
Stern ha avuto il grande merito di avere descritto lo sviluppo del neonato nel rapporto con la madre, ma restituisce un bambino che, pur evolvendo nella relazione, ne è indipendente nella misura in cui la teoria si prefigura un punto di arrivo e di fine dello sviluppo, costituito dal sé autonomo. Quest’ultimo finisce per assurgere a un sé di portata universale, un sé che sembra ontologicamente preesistere alla relazione.
Evidentemente siamo in presenza di una tendenza non solo occidentale, ma forse comune al genere umano, nel voler trovare leggi e ricorrenze assolute e universali che conferiscano quel senso di sicurezza che ci illude di poter governare la realtà; a seguito di questa tendenza e con essa intersecata, si è sviluppata una specifica modalità di costruzione della conoscenza: la modalità oggettivante. Forse la “natura” dell’uomo offre solo questa possibilità di conoscere o forse essa stessa è un costrutto sociale, di fatto la fede nella conoscenza oggettiva, quello che è stato definito l’occhio di Dio, in pieno positivismo e post-positivismo è stato il paradigma vincente. Oggi, rispetto ad altre epistemologie che ci governano, compresa l’epistemologia della complessità (Bocchi; Ceruti, 2007), essa si rivela una pretesa fuorviante.
Perciò attualmente l’intento di ricercare nell’essere umano, quale oggetto di studio, leggi intrinseche all’oggetto stesso, ritenendo tali leggi come assolute, universali, trans-storiche e trans-culturali, risulta epistemologicamente non più sostenibile. Non esiste una “verità” nell’oggetto che attende una volta per tutte e definitivamente di essere scoperta. Tutto questo per evidenziare che l’assunto aprioristico dell’esistenza di un sé può derivare da un’“epistemologia delle certezze e della rassicurazione”, che si presume garantisca all’essere umano il proprio tangibile senso di esistere.
Senza approfondire in questa sede la critica della fragilità di un’ontologia del Sé’, sottolineiamo che il “primo” Stern, da questo punto di vista, non si discosta molto dai modelli freudiani e postfreudiani. Mentre nel “secondo”,  quello  impegnato  nella  collaborazione  con  il  “Boston  Group” (Stern e al., 1998), è possibile intravedere nell’elaborazione del modello sistemico  diadico  dello  sviluppo  (Sander,  2007;  Tronick,  2004;  Beebe, 2002) un tentativo di superamento del precedente assunto; assunto orientato a posizionare l’esistenza psichica del soggetto aprioristicamente e a monte del suo contesto di vita. Numerose ricerche si sono concentrate sullo studio del sistema diadico madre-bambino (Beebe e Lackman, 2002; Stern, 1995; Tronick, 1998) e molte di esse – per mezzo dell’analisi statistica di microsequenze video filmate dell’interazione madre-neonato – hanno evidenziato una circolarità micro sequenziale interattiva procedurale tra la madre e il bambino. Ad esempio i due partner anticipano e proseguono in modo bidirezionale il comportamento l’uno dell’altro dimostrando così di formare degli schemi spazio temporali su base affettiva che sono un misto del bambino e dell’altro e appartengono tanto al neonato quanto alla madre. Beebe e Lackmann (1997) definiscono questi schemi neuro motori affettivi, le “strutture presimboliche del sé e dell’oggetto”. Si tratta di co-costruzioni che vanno a costituire il sé. È possibile cogliere in questa concettualizzazione un passaggio non indifferente rispetto alla teorizzazione del primo Stern; in quest’ottica il soggetto sembrerebbe ontologicamente fondato nella relazione; pensiero che potrebbe aprire la strada verso una teorizzazione dello sviluppo basata sull’interazione contestuale. Tuttavia, a una lettura più approfondita, si deduce che gli schemi neuro motori affettivi vengono “incorporati” dal neonato. Nell’auto ed etero-regolazione il soggetto “incorpora” e fa proprie le strutture presimboliche del sé e dell’oggetto ed è proprio il verbo impiegato e l’azione dell’incorporazione che denuncia la tendenza aprioristica pronta a rispuntare tra le pieghe del discorso.

 

Alcuni cenni sulla difficile concettualizzazione di intra e interpsichico nello sviluppo

 

Da Freud in poi, ogni teoria dello sviluppo in psicoanalisi si è fondata su un’epistemologia dualista che nella conoscenza ha separato soggetto e oggetto, che riteneva perseguibile l’acquisizione della verità posta “là fuori” attraverso l’accesso diretto e obbiettivo ad essa e che, non da ultimo, perseguiva un credo scientista, usando, come credenziale di scientificità, concetti e argomentazioni mutuate dalle scienze della natura, nel nostro caso, come rilevato, dall’embriologia.
Sullo sfondo di questi tre postulati lo sviluppo è stato codificato come una sequenza ordinata basata su un intrinseco dispiegarsi di programmi genetici che portano l’organismo dalla fusione-simbiosi all’individuazioneseparazione. Se ne deduce che in questa prospettiva il sé è ontologicamente fondato, proprio in virtù dell’assioma che è postulato uno psichismo “dato” che entra in relazione con un ambiente che gli preesiste. Se la realtà esterna, l’oggetto reale, subentra, è evidente che essa assume per il teorico un ruolo concettuale secondario e che non possa essere considerata senza soluzione di continuità rispetto al soggetto e intrinsecamente “incidente” sullo sviluppo psichico del bambino e dell’essere umano. Pertanto la base dei paradigmi di sviluppo psicodinamici poggia su una concezione intrapsichica dello sviluppo. Con la Klein (1950) viene introdotto in psicoanalisi l’oggetto innato fantasmatico, manovra che è stata considerata antesignana della nascita della teoria delle relazioni d’oggetto. Ma le cose a ben vedere non stanno proprio così: per Melanie Klein l’incidenza dell’oggetto reale sullo sviluppo è di fatto nulla, perché l’evoluzione del bambino dipende da un’elaborazione interna al neonato nelle due posizioni schizoparanoide e depressiva, dalla scissione e in ultima analisi dalla pulsione di morte proiettata all’esterno. L’oggetto non può che rimanere l’attore quiescente e secondario di un processo che risulta esito di un’ipervalutazione dei fattori interni rispetto a quelli esterni. In sostanza l’oggetto reale, annullato da un fantasma prescisso da qualsiasi forma esperenziale, non risulta contemplato. In seguito, con Fairbairn (1952), Winnicott (1965) e Kohut, forse anche per reazione, il paradigma si è talmente spostato sul versante dell’incidenza dell’oggetto reale (la madre sufficientemente buona), da incorrere nel rischio che lo sviluppo potesse dipendere unicamente e totalmente dall’oggetto. Ma anche presso questi autori è rintracciabile la dicotomia soggettooggetto, in questo caso svolta in direzione opposta, tale da ipervalutare i fattori esterni a scapito di quelli interni.
Insomma, nella storia dei modelli evolutivi di matrice psicoanalitica parrebbe che nelle teorizzazioni più “storiche” l’incontro tra intra e interpsichico sia stato di difficile concepimento, sebbene tali difficoltà, in maniera più duttile e sfumata e con maggior consapevolezza del gradiente di problematicità, permangano anche nelle teorizzazioni a noi più vicine. Ciò che funge da catenaccio per una soluzione più agevole del problema è la persistenza di una cronica dicotomia fondata su un presupposto epistemico comune. Il presupposto è quello di una scontata e aprioristica esistenza di un sé o di un io che sempre e comunque opera “identificazioni”, “interiorizzazioni” e “internalizzazioni” (Mitchell, 1988). Che si tratti di identificazioni con oggetti significativi perduti, di relazioni oggettuali interiorizzate, delle RIG del primo Stern o dei MOI del bowlbismo, si presuppone in ogni caso l’esistenza di un Sé o di un Io operante a monte. In tale inquadramento intra e interpsichico vengono concepiti come contrapposti, all’interno di un pensiero che disgiunge e separa e non congiunge e aggrega.
Sembra che nel primo Stern e anche se in forma più velata, nelle sue successive elaborazioni teoriche nella cornice del Boston Group, abbia pesato una concezione fondata sull’esistenza aprioristica del sé: di fatto viene perpetrata una dicotomia che risulta irriducibile fin tanto che a monte domina una forma di conoscenza basata sull’oggettivazione e che conserva l’idea che il soggetto esista in quanto oggettivato.
In quest’ottica è logicamente preclusa la possibilità di “acchiappare” entrambi i poli dell’interazione, un impedimento che ben delucida i motivi per i quali il susseguirsi dei modelli nella storia della psicoanalisi ha presentato un’oscillazione e un bipolarismo tra intra e inter-psichico. È ipotizzabile che lanciarsi oltre la contrapposizione tra mondo interno e mondo esterno, secondo un modo alternativo di concepire la conoscenza dell’essere umano non incernierato sulla dicotomia soggetto-oggetto e capace di andare oltre la contrapposizione tra interno ed esterno, tra natura e cultura, tra organismo e ambiente sia percepito come pericolo di penalizzare il senso del proprio esistere, di perdere il sé, insomma di perder-si. Un punto di svolta potrebbe essere la riflessione sull’origine delle strutture mentali che si ritengono abitare all’interno dello psichismo. Possiamo pensare in senso ontologico che non esista alcuna struttura ontologicamente data e che il sé e l’Io siano degli epifenomeni, il prodotto di sé esperienziali reificati nell’accezione di Jervis: artefatti sociali e culturali funzionali all’essere umano per concettualizzare e rassicurarsi circa la propria esistenza. Sebbene i biologi da tempo hanno codificato lo sviluppo degli organismi nel loro ambiente in termini di dialettica tra auto ed eco-organizzazione, questi due focus hanno subito storicamente diverse letture che, scindendo i due fronti, hanno accentuato ora un versante ora l’altro. Proprio a salvaguardia dell’unità dell’organismo, Maturana (1990) ha precisato che per gli esseri viventi, e in particolare per l’essere umano, «l’ambiente esterno non può avere un’incidenza istruttiva»; è solo dal proprio interno che il sistema, in base alla sua “coerenza”, ammette o meno ciò che può rientrare nel suo stato attuale. Per quanto riguarda il versante “eco”, non è possibile non considerarlo una componente fondamentale del costituirsi dell’essere umano, ma è altrettanto necessario andare oltre la dicotomia tra auto ed eco-organizzazione, per entrare in un ordine di idee che, come due facce della stessa medaglia, li consideri della stessa matrice. La seguente citazione di Oyama chiaramente rilancia l’unificazione dei due aspetti:
la revisione operata dalla DST (Teoria evolutiva dei sistemi) non consiste nell’affermare che tutto interagisce con tutto, né che tutto è sempre soggetto ad alterazione, ma consiste nel riconoscere: (1) che in ogni momento le influenze e i vincoli esercitati sul sistema sono sia funzione degli stimoli presenti che il risultato di stimoli, risposte e integrazioni passate, e che il significato di un componente non è mai dato a priori ma è determinato contingentemente nello svolgersi stesso delle interazioni; (2) che sono gli organismi a organizzare e costruire l’ambiente circostante così come sono da questo “organizzati” e “costruiti” (Oyama, 1998).
Un’altra prospettiva teorica è quella di Michele Minolli, in cui l’essere umano, quale realtà complessa, viene definito Io-soggettoed è concepito come composto da più parti in rapporto attivo con l’ambiente che lo circonda in ordine alle teorie dei sistemi complessi dinamici non lineari (Thelen e Smith, 1994) e all’epistemologia della complessità (Bocchi e Ceruti, 2007). Mi soffermerò sulla felice intuizione che definisce l’Io-soggetto come “l’altro fatto proprio” e sottolinea che l’Io-soggetto “è” l’altro fatto proprio. È indubbio che l’essere umano si colga esistente. Il proprio cogliersi è normalmente mediato dal riflessivo, a sua volta sorto sul pensiero logico-causale che tanto è servito all’evoluzione dell’umanità e che è fondato su un modello fenomenico, che ha la funzione di fornire un’immagine globale di sé stessi nell’interazione con l’altro. Ognuno di noi non coglie il suo essere l’altro, ma se stesso. La storia della scienza umana, con la sua visione oggettivante e con la tendenza ad assolutizzare la “mente”, costituisce un impedimento al concepire l’Io-soggetto come altro fatto proprio perchè il “sentimento palpabile del proprio “consistere esistenziale” vacilla se ritenuto essere l’altro ed espone alla paura di non esistere. Se l’Io-soggetto “è” l’altro, le forme di attenzione dell’individuo rivolte al proprio “essere”, in quanto mediate dal riflessivo, mistificheranno “l’essere l’altro” perché la riflessività oggettivante reifica il proprio cogliersi esistente come aprioristicamente separato e distinto dall’altro. Quando affermiamo “io sono io e tu sei tu”, a un certo livello neghiamo il fondamento ontologico dell’altro e quindi abitualmente parliamo di soggetto o persona riferendoci inevitabilmente a “qualcosa” di pre-esistente, di a sé stante, di già definito o, in quanto astrazione, già costituito. È come se invece di riconoscere quanto profondamente e interamente siamo l’altro ci rifugiassimo nell’illusione di essere unici e indipendenti.
È questione del punto di vista da cui osserviamo questa questione.
Sostiene Minolli: se come osservatori siamo abituati a ritenere l’Io-soggetto come a se stante, assoluto, in proprio, aprioristicamente allora diventa necessario cambiare ottica e toccare con mano che l’Io-soggetto è l’altro fatto suo. Non che questo elimini il vissuto soggettivo di essere se stessi, solo dà una visione diversa dell’essere se stessi: quella di essere l’altro fatto proprio.
La domanda da porsi circa le strutture presimboliche del sé e dell’oggetto di cui parlano Beebe e Lackmann è la seguente:” chi incorpora tali strutture? Dove e come si fonda l’ente che fa proprie queste strutture? Forse la risposta giusta risiede nel fatto che il neonato “è” quelli schemi e che le strutture presimboliche “sono” l’ente. La prospettiva teorica di Michele Minolli che definisce l’Io-soggetto “essere” l’altro fatto proprio, mi sembra costituire un ulteriore passo in avanti verso la fondazione del soggetto nella relazione e mi pare che escluda l’assunto dell’esistenza aprioristica del sé rappresentando un passo volto a dirimere la contrapposizione tra intra e inter-psichico per andare oltre le dicotomie e aprire la strada per una concezione “contestuale” dello sviluppo. Pensare alla configurazione dell’essere umano in questi termini significa “perdere” il sé e, come già accennato, possiamo dire che il sé o il soggetto non esiste ma si rivela un costrutto sociale, un feticcio frutto del funzionamento oggettivante della riflessività su se stessi e dell’azione reificante del vissuto esperienziale. Quindi fin dall’inizio della vita la configurazione che prende l’Io-soggetto e lo costituisce in quanto Io-soggetto è l’altro. Questo significa che l’ambiente o l’esterno e cioè la famiglia, il tipo di rapporto tra madre e padre, i parenti, il clima, la realtà geografica, la situazione economico-sociale, ecc., lo costituiscono e lo configurano in quanto quell’Io-soggetto.
Forse è possibile essere sé stessi pur sapendo che questo sé stessi è l’altro e dobbiamo ritenere che riconoscersi, in senso globale e non riflessivo, nel proprio essere l’altro domanda però uno sforzo e non può essere pensato come un processo automatico.
Inoltre va considerata la potente incidenza della pressione sociale sul sentimento di essere se stessi perché è fuori di dubbio che il “tessuto” sociale ha un forte impatto sulla consistenza dell’Io-soggetto ma ciò dipende molto dall’ottica in cui è posto il problema dello sviluppo. Non possiamo infatti pensare l’essere umano condannato o determinato dall’altro o dal suo ambiente.
Certo  l’Io-soggetto  è  qualitativamente  esistente  nella  misura  in  cui l’altro, storicamente l’ambiente dove si trova a nascere, viene fatto proprio, ma questo dato di fatto non può eliminare la possibilità per l’Io-soggetto di svincolarsi dalla sua storia e proporsi un’altra modalità di configurazione.
Si evidenziano due aspetti entrambi importanti: il primo è dato dal “fatto proprio”, è dato cioè dall’assunzione attiva dell’Io-soggetto dell’altro o contesto ambientale in cui viene al mondo; il secondo però riguarda la capacità dell’Io-soggetto di iniziare, a partire da se stesso, un nuovo processo configurandosi a partire da sé.
Fatta la premessa epistemologica per cui postuliamo che l’io-soggetto è (ontologicamente) l’altro fatto proprio e che non nasce tale ma lo diventa, è necessario ora delineare alcuni principi di base per una modellizzazione dello sviluppo, principi che possano guidare la comprensione di “come” l’altro viene fatto proprio, vale a dire come diviene l’io-soggetto; e lo dobbiamo fare con un modo di pensare epistemico che deve tenere conto di diverse variabili tra loro interagenti o retroattive. Ovviamente l’elenco che segue vuole solo essere una traccia indicativa, volta a definire quello che ho chiamato “sviluppo contestuale”, molte altre variabili potranno essere scoperte e teorizzate:

  • La non staticità ancorata al passato ma la perenne “apertura del sistema” in cui “lo storico” assume un nuovo significato all’interno di una cornice che modifica i rapporti tra passato, presente e futuro. Ciò significa concepire l’Io-soggetto non statico in funzione della configurazione iniziale del suo costituirsi, ma plastico e aperto e che l’altro diventa l’Iosoggetto nel corso di tutta la vita. Riguardo l’importanza delle prime esperienze di vita sullo sviluppo successivo: sono importanti le esperienze in sè o invece il significato che nell’attualità ci facciamo di quegli eventi? Ad esempio, chi sente e percepisce di esprimersi continuamente in funzione del rapporto con sua madre, è ancorato a quel rapporto con sua madre o “deve” definire se stesso oggi in tal modo per motivi altri, magari non sapendo che in tal modo “è” sua madre?
  • La non consequenzialità lineare preordinata dello sviluppo ma l’imprevedibilità ancorata al concetto di “emergenza” (Galatzer-Levy, 2002) come salto improvviso di qualità.
  • Le “parti” dell’io-soggetto come sistema vanno definite sapendo che non esistono separate le une dalle altre e che, in base al principio ologrammatico (Morin, 2007), l’espressione di una è espressione del tutto. Retroazione circolare significa incidenza reciproca delle parti tra loro ma soprattutto incidenza tra le configurazioni esistenti dell’Io-soggetto e l’altro significativo che varia e si diversifica nel corso della sua vita alla stessa stregua dell’Io-soggetto. Ciò significa che l’altro diventa Iosoggetto in funzione di quello che già è la configurazione attuale dell’Io-soggetto.
  • Visto dall’alto lo sviluppo pare essere per tutti consequenziale e ordinato, dal gattonare, al camminare, al linguaggio ecc. (Thelen e Smith, 1994). Ciò riflette i contesti sociali uguali nei quali gli esseri umani sono inseriti. Quello che siamo portati a chiamare adattamento va visto in realtà come circolarità retroattiva tra la configurazione esistente dell’Iosoggetto e l’altro con cui entra in contatto in un momento dato.
  • Lo sviluppo è quindi un divenire retroattivo circolare, funzionale al proprio contesto, al di là dei contenuti. Il modello deve basarsi sulla funzionalità e non sui contenuti perché i contenuti sono fotografici, classificatori e mistificatori: lo sviluppo è funzione e non contenuto. Un bambino che all’età di tre anni succhia ancora il latte dal seno materno, “è” il suo contesto, forse la madre, ma non è patologico.
  • Oltre quindi una visione riduzionista o contenutistica o ambientalistica, è necessario sostenere con forza che nessuno può essere “consistente“ per un altro che esso sia un bambino o un adulto. E non può neppure fare in modo di dare all’altro, che sia piccolo o grande, la forza e la qualità dell’esistere in proprio. Non esiste una realizzazione ideale dell’essere umano. Esiste un’Io-soggetto per quello che è in funzione dell’altro fatto suo (Minolli, inedito).
  • La configurazione dell’Io-soggetto sull’altro, in ordine al fatto proprio, non è qualitativa per l’Io-soggetto. Può diventare qualitativa solo e unicamente attraverso  la  Presenza  a  se  stesso  dell’Io-soggetto:  io  sono l’altro fatto mio. È qui che possono aver luogo le più strane reazioni dell’Io-soggetto: dal rifiuto alla reazione, dalla negazione all’idealizzazione, dalla rassegnazione alla rinuncia a occuparsi di se stesso, dalla delega alla società al rifugiarsi nella psicopatologia (Minolli, 2009).
  • Allora se il problema che si pone è quello della qualità è bene chiarire che il genitore o l’educatore perfetto è quello che è Presente a quello che è e se lo dice accettandolo attivamente nonché riportandolo apertamente al proprio figlio o allievo. È questo il salto di livello qualitativo e l’indicazione generale che deve essere riportata ad ogni agenzia educativa. L’unico modo che ha a disposizione l’educatore o l’altro per aiutare l’Io-soggetto a sviluppare la propria possibilità di accettarsi attivamente per quello che è o a mettersi in moto per trovare dentro di sé una qualità diversa di essere, è quella di trasmettere una visione ampia e aperta dello spazio esistenziale possibile per l’altro senza ritenere di indurre o procurare all’Io-soggetto la qualità dell’essere se stesso. Questa apertura dei genitori e degli educatori relativizza sia in se stessi sia nell’altro “l’altro fatto proprio” e rende la strada libera e aperta verso una qualità della propria vita che Michele Minolli chiama: essere Iosoggetto.

 


* Paolo Milanesi è psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista SIPRe e IFPS e direttore del Centro SIPRe di Milano. Via Puccini 18, 20032 Cormano (MI). Daniela De Robertis è filosofo, psicologo, psicoterapeuta, supervisore della SIPRe e docente della Scuola di specializzazione in Psicoanalisi della relazione. Via Crivellucci 35, 00179 Roma.

** Si precisa che la prima parte del presente lavoro è stato scritto congiuntamente da Paolo Milanesi e Daniela De Robertis, mentre l’ultimo paragrafo (“Alcuni cenni sulla difficile concettualizzazione di intra e inter-psichico nello sviluppo”) è stato elaborato unicamente da Paolo Milanesi.

1  Tra le innumerevoli competenze che in base alle evidenze empiriche il neonato possiede, segnaliamo la capacità di saper riconoscere l’odore e la voce materna, le differenze del volto di padre e madre, distinguere le emozioni a seconda del tono vocale, imitare i sorrisi, avere espressioni di sorpresa, mantenere l’arousal basso quando si sente pulito e nutrito, rispondere sorridendo alla gioia della mamma, mostrare il disagio voltando la testa in caso di intrusione, aggrottare le sopracciglia se vede la mamma arrabbiata e reagire sbavando o masticando a vuoto se la vede triste, ecc. (Stern, 1985). Tutti questi dati, e altri ancora, hanno permesso di cogliere la sensibilità originaria con cui il neonato vive e risponde alle emozioni positive e negative: un’osservazione allora inaspettata quanto oggi scontata. Sempre nel novero delle capacità cognitive di cui dispone il piccolo dell’uomo, è individuabile la capacità di effettuare un accoppiamento transmodale tra modalità sensoriali differenti, distinguere gli odori e le voci di altri neonati nella nursery, imitare l’adulto (quale forma di protocomunicazione), crearsi aspettative su avvenimenti in base a schemi che si ripetono e reagire alle violazioni di questi già ad una settimana di vita (dimostrando la capacità di rilevare contingenze prevedibili in tempi brevi e implicitamente avviare l’aspettativa di poter influire sull’altro), percepire la durata del tempo preferendo azioni sincronizzate, osservare la differenza tra schemi spaziali umani e meccanici, memorizzare gesti ed emozioni ed operare categorizzazioni (Carli, Rodini, 2008).

2  La conoscenza relazionale implicita è una sorta di sapere implicito di “come fare a stare con gli altri”, è presente per tutta la vita ed è continuamente modificabile arricchendo e integrando la vita psicologica dell’individuo.

3 Già a seguito della pubblicazione di Totem e tabù (Freud, 1912), la voce antropologica (Malinowsky, 1924) aveva criticato la presunta universalità del complesso di Edipo, riconoscendovi la costellazione tipica della società occidentale, fondata sulla famiglia patrilineare, sulla patria potestas derivata dal diritto romano, sulla morale cristiana e sostenuta dall’industrialismo europeo della borghesia benestante. È noto che nel mondo esistono numerose culture, al cui interno si sviluppano tipi di sé, dei quali studi antropologici hanno attestato la non omologabilità e la peculiarità della cornice socioculturale di appartenenza (Shweder, 1984; Stigler, 1990). La popolazione Chewong, della Malaysia ad esempio, ritiene che il sé risieda nel fegato, gli antichi greci lo collocavano nei polmoni e gli Egizi nel cuore. Alcune popolazioni dell’Africa occidentale ritengono invece che il sé sia controllato da “forze”esterne che sono localizzate nel passato. Gli individui di queste culture, nell’occidente contemporaneo, verrebbero sicuramente considerati gravemente patologici e finanche psicotici.

4  Per un approfondimento della meta-teoria dell’Io-soggetto e in particolare per la concezione della sua unitarietà, unicità e sul significato del rapporto tra le parti che compongono l’Io-soggetto e il tutto (Minolli, 2009) si rimanda all’articolo dell’Autore su questo numero di RP.



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Riassunto. Il contributo mette in risalto alcuni presupposti teorici alla base dei modelli psicoanalitici sullo sviluppo ed evidenzia come il lavoro e la ricerca di Daniel Stern abbiano sovvertito tali presupposti spingendo la psicoanalisi ad una profonda rivisitazione concettuale. Nella seconda parte dello scritto viene proposta una critica epistemologica al pensiero teorico dello stesso Stern. In particolare, a partire dalle considerazioni critiche di Philips Chusman, si evidenzia la tendenza, sottostante la teoria di Stern, a concepire lo sviluppo del bambino nella direzione di un’intrinseca e universale costituzione di un “sé autonomo”. In fine, sulla base della prospettiva teorica di Michele Minolli fondata sull’epistemologia della complessità, vengono suggeriti alcuni principi per una concezione dello sviluppo definita “contestuale”. [PAROLE CHIAVE: Daniel Stern, senso del sé, bambino clinico, bambino osservato, bambino contestuale, Io-soggetto]

 

Abstract. DANIEL STERN: FROM THE OBSERVED CLINICAL INFANT TO THE CONTEXTUAL INFANT. This paper highlights some theoretical assumptions contained in psychoanalytical models of development and shows how Stern’s work has challenged these assumptions leading to a deep revision of some psychoanalytical concepts. In the second part of the paper, the author presents an epistemological critique of Stern’s theories. In particular, starting from Philip Cushman’s critical considerations, the author highlights the tendency underlying Stern’s theories of seeing infant development as aimed at the intrinsic and universal creation of an autonomous self.   In closing and starting from Michele Minolli’s theory based on the epistemology of complexity, the author suggests some principles for a contextual theory of development. [KEY WORDS: Daniel Stern, sense of self, clinical child, observed child, contextual child, Ego-subject]

 

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