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COVID-19: Cronache di psicopatologia contemporanea

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COVID-19: Cronache di psicopatologia contemporanea
di Marco Riva www.psychiatryonline.it/node/8606

Abstract
The text proposes a chronicle of the emerging present as a sending to a cooperating reader located in the future. The author, affected by Implicit Psychosis, uses theorizing as a defense against pre-delusional distress (Whanstimmung). Fantasizing diagnostic hypotheses (“Virological” Persecutory Delirium, Intra Traumatic Stress Disorder) precede a Connectionist discourse, from the darwinian Emotional Contagion to the Extended Mind Model, explanatory of the viral Unique Thought. Clinical-theoretical references (Folie à Deux, Psychosocial Syndromes, Mental Automatism) anticipate a hypothetical syndromic origin, such as White Psychosis and Ordinary Psychosis (Delirium of Normality) of the current psycho-pandemic. A hyperreality, produced by the psycho-virus and populated by digital-self   needing to contain anxiety with psychotic mechanisms, includes the author. These theorizing-defenses are followed by the attempt to find meaning in a new clinic made of probes in search of logical-emotional coherence, that is, of Chosen Facts. These probes meet Transitional Objects, which have become Transitional Means, which characterize new treatment processes in a remote world and in a viralized real. Four clinical cases, two of which in the real and two in the virtual, conclude the discussion.

Il testo propone una cronaca del viralizzato presente emergente come invio ad un cooperante lettore collocato nel futuro. L’autore, affetto da Psicosi Implicita, utilizza la teorizzazione come difesa dall’angoscia pre-delirante (Whanstimmung). Fantasticanti ipotesi diagnostiche (Delirio Persecutorio “Virologico”,  Intra Traumatic Stress Disorder) precedono un discorso Connessionista, dal darwiniano Contagio emotivo al Modello della Mente Estesa, esplicativo del virale Pensiero Unico. Riferimenti clinico-teorici (Delirio a due, Sindromi Psicosociali, Automatismo Mentale) anticipano una ipotetica provenienza sindromica, come la Psicosi Bianca e la Psicosi Ordinaria (Delirio di Normalità) dell’attuale psico-pandemia. Una Iperrealtà, prodotta dallo psico-virus e popolata da Sé-Digitali,  bisognosi di contenere l’angoscia con meccanismi di stampo psicotico, include l’autore. A queste teorizzazioni-difese segue il tentativo di trovare un senso ad una nuova clinica fatto di sonde alla ricerca di coerenze logico-emotive cioè di Fatti Scelti. Tali sonde incontrano Oggetti Transizionali, divenuti Mezzi Transizionali, che caratterizzano nuovi processi di cura in un mondo in remoto e in un reale viralizzato. Quattro casi clinici, dei quali due nel reale e due nel virtuale, concludono il testo.

08.03.2020

Tutti dobbiamo fare la nostra parte. Non sono un epidemiologo né un virologo, sono uno psichiatra. Provo a fare la mia parte. Questo scritto è un sintomo quale prodotto di una mia difesa (teorizzazione) che, come tutte le difese, è una terapia. Il testo è da intendersi come una proposta insatura priva di pretese di oggettività, una Macchina Pigra che necessita di cooperazione interpretativa per mettersi in moto: “Un testo è incompleto senza l’intervento di un lettore che ne riempia gli spazi vuoti con la sua attività inferenziale” (U. Eco,1979). In questo senso colloco il lettore cooperante, magari me stesso, in un qualche futuro dal quale a posteriori possa osservare questo presente e forse trarne un qualche tipo di utilità.

 

“Le versioni della realtà dipendono dagli strumenti espressivi di cui si fa uso” (Gargani A.G., 1982).

Con i miei strumenti espressivi cerco una versione del reale. Al momento non mi è dato di sapere se questa mia versione assomiglierà ad una elaborazione logico-scientifica o ad un delirio.

Vedo umani mediatizzati, che mi stanno parlando da Ovunque. Sono Simulacri (Baudrillard, 1980) cioè narrazioni in sé con un rigido e incontrovertibile rapporto contenuto-contenitore, mezzo-messaggio analogo al rapporto capside-genoma virale. Contagiare. Tutti abbiamo un’unica bloccata direzione. C’è un Pensiero Unico (Ramonet, 1995) che, in quanto tale, sento e definisco da psichiatra fantasticante come un Disturbo Delirante Condiviso. Con mia maggior precisione lo definisco Delirio Persecutorio “Virologico”. Ne sono affetto.

Questo delirio non è “bizzarro” perché è plausibile, comprensibile e deriva da comuni esperienze di vita. E’ un delirio persistente, sistematizzato, centrato su un unico tema: il virus.

Da un altro vertice, più nosografico, ipotizzo una serie di analogie con Il PTSD (Disturbo post-traumatico da stress), da intendersi adesso come intra-traumatico nel senso che la sintomatologia è attualmente in corso durante la presenza del fattore di stress. Sintetizzo:

  1. a) esposizione ad una minaccia di morte
  2. b) pensieri intrusivi e ricorrenti associati all’evento
  3. c) evitamento degli stimoli (persone, luoghi, oggetti) associati all’evento
  4. d) associazioni negative (non ci si può fidare di nessuno)
  5. e) irritabilità, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme

Possibili sintomi dissociativi: depersonalizzazione (essere un osservatore esterno che spiega tutto) e\o derealizzazione (sensazioni che la realtà sia un sogno). Ne sono affetto.

Mi difendo così dalla mia angoscia, teorizzando. Magari questa difesa razionalizzante può aiutarmi a trovare una distanza osservativa che, forse, poterebbe permettermi di incontrare un pensiero nuovo, non già confezionato, non bloccato in un unicum. Un pensiero che al momento non so dove sia. Forse questo pensiero mi sta aspettando: “Spero che qualcuno si possa sentire preparato ad alloggiare questi pensieri o nella propria mente o nella propria personalità. Mi rendo conto che questa è una grossa richiesta, perché questi pensieri senza pensatori, pensieri vagabondi, sono anche potenzialmente pensieri selvaggi” (Bion,1977).

Provo a “lateralizzare” la mia mente, cerco una sospensione del mio sapere per cercare di pensare. Mi accorgo di non riuscirci, non trovo sospensioni, il mio sapere già si intromette forse come difesa inconscia.

Non resisto alla necessità medico-psichiatrica di rimanere nella nosografia.

Nell’ultima versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM–5 (2013) dell’American Psychiatric Association, la diagnosi di Disturbo Psicotico Condiviso, presente nella precedente versione, scompare. Peccato. Cerco altrove e ritrovo quel che avevo già trovato e scritto in Legami Deliranti (Riva, 2012) cioè una serie di psicopatologie “relazionali”, o da connessione tra le persone, che oggi potremmo chiamare da contagio o da Infezione Psichica (Jung, 1946).

Il Delirio a Due (Lasegue e Falret, 1877) nel quale un membro della coppia, in genere dominante, contagia-convince l’altro membro in genere con vissuti e pensieri paranoici. Esempi macroscopici sono il delitto di Novi Ligure la strage di Erba. Ai miei occhi clinici è altresì “normalmente” evidente nelle coppie di coniugi o tra genitori e figli.

La P.A.S acronimo di Parental Alienation Syndrome (Gardner, 2002), prodotta da separazioni coniugali turbolente, mostra un simile fenomeno di contagio psichico tra un genitore ed un figlio.

Le Sindromi Psicosociali (Di Chiara,1999) che sono antiche come le religioni e le guerre, moderne come le ideologie politiche e post-moderne come le “nuove dipendenze” magari da social.

Trovo anche legami con fantasmi come nell’Automatismo Mentale (De Clérambault, 1920) nel quale un “estraneo” prende furtivamente il posto del pensiero del soggetto che diventa un automa guidato a distanza, questo soggetto “trova” il suo Delirio di Influenzamento o di Riferimento ovvero “scopre” il suo Legame.

Infine legami o connessioni tra persone e macchine come Viktor Tausk nel 1919 ci descrive nell’articolo Sulla genesi della macchina influenzante nella schizofrenia nel quale una sua paziente è comandata a distanza da una macchina.

Sto provando a dire del nostro umano ontologico bisogno di legami.

Siamo esseri costituiti dai nostri legami, dalle nostre connessioni.

Già Darwin nel 1872 individua il “Contagio emotivo tra congeneri” come esistenza di capacità innate di riconoscimento delle emozioni altrui, unita ad una tendenza altrettanto innata a rispondere automaticamente a queste in modo congruente. Darwin riteneva che le espressioni emotive agissero come segnali comunicanti ai congeneri determinando la risposta espressiva per imitazione automatica.

Poi una raffica di comportamentisti, da Lorenz in poi con il suo Imprinting (1937), psicoanalisti e neuroscienziati. Tra questi ultimi gli “Esternisti” mi piacciono molto, soprattutto il loro Modello della Mente Estesa (Clark e Chalmers,1998) secondo il quale il sistema nervoso centrale è innanzitutto situato ed accoppiato ad un corpo, questo insieme è in interazione con il mondo esterno tramite una superficie senso-motoria e infine il terzo tipo di relazioni-accoppiamenti è specie-specifico, avviene cioè tra congeneri.

Non riesco poi a non dire, con una vena di orgoglio nazionalista, dei Meccanismi neurofisiologici dell’intersoggettività (Gallese et al. 2007), che, basati sui neuroni specchio, producono la Simulazione Incarnata cioè una riproduzione automatica, non consapevole e pre-riflessiva, delle azioni e soprattutto degli stati mentali dell’altro.

Infine una neuroscienza delle origini ci racconta che nel feto esiste una Coscienza Corporea, il Self neurobiologico (Mancia, 2006). Questo Proto-Self, corporeo e primordiale, è costituito da un insieme di funzioni vitali (motorie, respiratorie, vegetative e sensoriali) che formano un apparato “connesso” alla madre ed all’ambiente uterino che lo contiene (Gallagher, 2010).

Queste procedure fetali-materne costituiscono la memoria neurobiologica che non possiamo ricordare ma che è sempre con noi.

Noi siamo (anche) memoria procedurale. Abbiamo una coscienza che è Relazionale.

Della psicoanalisi forse dirò poi.

Ritorna il me stesso clinico. Osservo il mondo appena trascorso, il mondo pre-virale. Vedo due patologie che mi sembrano “araldiche” di questa contemporanea Psicosi intra o post-virale: la Psicosi Bianca (Green, 1992) e la Psicosi Ordinaria (Miller, 2000). Sono tra loro vicine nella loro invisibilità cioè nel loro non produrre sintomi straordinari come i deliri bizzarri o le varie manifestazioni “visibili” dell’angoscia. In queste patologie il pensiero è oggettivante, schematizzante, semanticamente congelato, operatorio e mai auto-critico. La realtà non è distorta ma sovra-costruita da significati logici impenetrabili da altri punti di vista. Questi pazienti ripetono modelli (o contro-modelli), si identificano in un’Istituzione o Apparato regolante ed ai vari stili di vita vigenti. La loro identità può essere definita Complementare (Berti et al. 2007). La loro emotività è atrofica, non sentono le emozioni, non sentono l’inconscio, sono Senza Inconscio (Recalcati, 2010). Costantemente minacciati dall’angoscia-panica del vuoto, della rottura di quei legami-connessioni con “Qualsiasicosa” (Riva, 2010) controllano e impediscono il cambiamento con protocolli idealmente definitivi. Questo fa il modello anoressico, ipocondriaco, ossessivo, fobico, paranoico, e questo fa anche la depressione che è perdita del legame. Immersi nell’angoscia che è vuoto da sempre e ovunque. Narcisisticamente, autisticamente chiusi nell’evitare qualsiasi evoluzione, cambiamento o trasformazione di sé, si identificano “adesivamente” (Meltzer,1975) ai sempre più numerosi “modelli comuni”. Così era quel mondo post-moderno. Tutti noi eravamo attentissimi a controllare la nostra vita emotiva sotto la minaccia di una qualche perdita.

Rintraccio nel mio sapere un concetto “gelido” che considero pertinente a quelle nostre patologie controllanti e silenti ovvero la Pulsione di Morte: “Se dobbiamo considerare come una verità che non conosce eccezioni il fatto che ogni cosa muore per ragioni interne, cioè diventa di nuovo inorganica, allora siamo costretti a dire che lo scopo di ogni vita è la morte e che le cose inanimate esistevano prima di quelle viventi”. (Freud, 1920). Una pulsione verso l’inanimato, una pulsione che fa morire, una negazione della Volontà di vivere (Schopenhauer, 1819), un lavoro di morte da noi “agito” con le nostre ripetizioni “procedurali” con le quali controllavamo la vita.

Qualcuno tra noi arrivava a delirare di Post-Umanesimo (O’Connell, 2017), cioè di prolungamento della vita grazie ai prodigi della Tecnica, ad una medicina 4.0, a protesi ed endo-protesi.

Qualcun altro filosofava di Trans-Umanesimo (Allegra, 2017) che, in relazione alle analisi dei Big-Data ed alla produzione di Digital-Self (Byung-Chul Nan, 2016) ci avrebbe regalato l’eternità grazie all’upload delle nostre menti su supporto digitale.

Questo facevamo. Anche noi psico-curanti comunque adesi ad una qualche teoria-modello psicoanalitico, psichiatrico o cognitivo, avevamo il nostro modo di aderire a protocolli culturali anche noi senza inconscio. Abbiamo tenuto a bada l’angoscia vestendo psico-abiti che ci facevano sentire “Come se” (Deutsch,1965) fossimo psichiatri e psicoanalisti.

Si delirava affetti da un Delirio di Normalità fatto di legami con “Qualsiasicosa” pur di non contattare o essere contattati dall’angoscia.

Poi la psico-bomba la Bomba Psionica (Dick, 1972). La fantascienza, com’è evidente, mi ha sempre affascinato.

Non so del Virus-reale, ma qualche cosa la posso pensare rispetto allo psico-virus. Adesso, domani non so, il legame dominante, Unico è con l’Incoronato Virus (Resega, 2020) che è invisibile ma ancor più invisibile è la sua capside psico-virale. Questo psico-virus è un oggetto sontuoso e attraente che ci “aspira”, che vive e prolifera in una realtà superiore che Baudrillard nel 1984 chiama Iperrealtà nella quale la simulazione sovrascrive la realtà. Viviamo tutti, me compreso, in questa iperrealtà ad altissima densità di fantasmi virali-normali cioè comuni a tutti.

Adesso siamo risucchiati in una realtà viralizzata. Prigionieri di un Reale poco trasformabile, poco riducibile: “L’angoscia è dell’ordine dell’irriducibile del reale…l’angoscia è, fra tutti, il segnale che non inganna” (Lacan, 1962).

Adesso so della mia paura del contagio che mi circonda da Ovunque e diventa angoscia popolata da fantasmi di contagio. La paura è un’emozione di base incisa alla base della nostra mente.

Una proto-emozione che può esplodere ma soprattutto uno stato pro-emotivo basale, latente, sub-latente del quale abbiamo sempre memoria. Implicita. Ora questa proto-emozione sta premendo sulle nostre coscienze, sta rompendo gli argini paranoici in un rapidissimo percorso regressivo verso l’angoscia pre-delirio, sempre meno contenuta da iper-razionali forme ossessive-paranoiche.

Questa angoscia pre-delirante si chiama Wahnstimmung (Jaspers, 1964): “C’è qualcosa, è accaduto qualcosa, sento che sta accadendo. Qualcosa c’è ma non so che cosa. Dimmi, che cosa c’è?!” E’ la semplice domanda che una malata pone a Jaspers. La malata abita in una zona di confine non abitabile, una pericolosa “No man’s land” (Tanović, 2001), e ora la chiamo Zona Rossa. Questa zona è “abitata” dalla Wahnstimmung o Atmosfera Delirante. Qui il soggetto naufraga nella “radura nebbiosa” da dove non può più avere qualcuno che lo aspetta fuori per rassicuralo. I legami tendono a svanire e il soggetto con loro. Qui dimora l’Angoscia, indefinibile stato che caratterizza l’uomo nel suo autentico essere-nel-mondo, questo è il paradossale non-luogo che la Wahnstimmung occupa. “Il minaccioso non si avvicina, esso ci è già, è così vicino che ci opprime e ci mozza il fiato, ma non è in nessun luogo. Esso è ovunque” (Heidegger, 1927). Questa è l’Angoscia. Questa è l’atmosfera che oggi ci circonda e costituisce.

Mi disinfetto, indosso una mascherina e mi distanzio da chiunque. Navigo tra l’angoscia e il mio delirare.

Allora? Qui chiusi in macro-zone rosse piene di virus e psico-virus come facciamo? Qui non scrivo di consigli perché altri ne hanno di ben migliori dei miei. Io non ho idea di come cosa fare se non aderire alle leggi. Sospendo il mio sapere perché davvero non mi serve. So, e quanto ho scritto lo dimostra, di essere in uno stato delirante o di angoscia pre-delirante che è ancor peggio. Provo ad avere coscienza di questo mio stato. Non teorizzo ma immagino. Esco da me e mi osservo delirare. Chiamo questo stato Psicosi Implicita cioè un ignoto stato psicotico che devo dare per scontato. Non so cosa sia ma penso che prima o poi qualcuno capirà.

Qualcuno A Posteriori (Freud,1914) capirà questo presente. Al momento sono ancora vivo, mi lavo le mani, nuoto nella rete, prova a guardare oltre. Prima o poi, forse, inizierò ad elaborare il lutto dal recentissimo mondo scomparso. Al momento sono un Incluso.

  1. Clinica

“Non puoi somministrare nulla ad uno spirito ammalato?” Ricordate la domanda posta al medico a proposito di Lady Macbeth sonnambula? La risposta probabilmente sarebbe qualche cosa del genere: non al momento ma tra 400 anni passa di nuovo e ti dirò cosa possiamo fare. (W.Bion,1977)

27.03.2020

La pandemia da Covid-19 sta determinando qualche evento psichico nei nostri pazienti e in noi psico-curanti?

Cerco una qualche specificità nelle dichiarazioni dei miei pazienti, nel loro introdurre, nel loro dire di argomenti esplicitamente connessi al virus (minacce alla salute, alle conseguenze economiche ecc.) e nella loro partecipazione emotiva più o meno intensa. Provo anche a coglierla nel loro inconscio, allucinando con una qualche teoria magari “relazionale” (transfert, identificazione proiettiva, campo analitico) e provo ad ascoltare le mie emozioni, le mie fantasie e quelle ignote che galleggiano nella stanza. Tutto ciò è per me piuttosto attraente, un’affordance ergonomica (Gibson, 1999) che mi risucchia in una ricerca di chiarezza lontanissima dal lasciar davvero fluttuare la mia attenzione: “Si tenga lontano dalla propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si abbandoni completamente alla propria memoria inconscia” (Freud, 1912). Le mie memorie diventano strane. Ho ricordi forse non molto rielaborati, ho stili che ripeto che non mi permettono di rielaborare questo nuovo reale e fantasmatico presente. Il passato ingombra il presente e in seduta sono prevalentemente attento ad individuare eventuali nuovi oggetti virali cioè prodotti dalla reale viralizzazione in corso. Mi domando se sia presente una “viralizzazione” del pensiero. E’ presente un influenzamento del pensiero? Come si manifesta? Il campo analitico è infettato? Il setting esterno e interno è stato rotto da un’irruzione del reale? Come sto sospendendo memorie e desideri? Scopriremo qualcosa di coerente, un fatto scelto? (1).

Mi chiedo se io non sia cristallizato in un’atmosfera solo paranoide o solo depressiva.

Ora tergiverso perché ne ho bisogno.

Penso che le narrazioni in seduta siano intercettate dalla Cascata Informativa (Arnone, 2004) presente nel mondo reale.  Interessante questo concetto economico che determina, da parte di operatori di borsa, scelte illogiche, emozionali, basate sull’imitazione, sul contagio di paura e avidità (Fumagalli, 2020): “L’aspetto più significativo delle cascate informative è che rendono impossibile l’aggregazione delle informazioni private. Una conseguenza è il Panic Selling cioè una fase di mercato in cui i venditori escono dal mercato a qualsiasi prezzo, generando cospicue perdite.

Polarizzato cerco e produco polarizzazioni in un unico vertice. E’ possibile che io stia imitando.

Non funziono. Mi accorgo che la mia funzione analitica non c’è.  Il campo è costantemente invaso da qualche cosa che mi include. Ho precedentemente chiamato questa cosa Psicosi Implicita. Cosa in sé non del paziente o mia o nostra e neppure elemento del campo analitico. L’analogia possibile è con la non coscienza di malattia. Che coscienza di malattia ha una persona che non ha coscienza di malattia? Qualcuno la suppone. Penso di dover professionalmente supporre di esserne affetto in assenza di coscienza. So che c’è perché a posteriori ne ho evidenze. Ho evidenze personali di mie pregresse configurazioni professionali, che ora definisco deliranti, rigidamente collocate in procedure a-priori e in razionalizzazioni paralizzanti il divenire. Modi “come se” di lavorare cioè contenitori dell’angoscia di stampo autistico narcotizzanti le emozioni. Mi riferisco all’essermi adeguato (non solo io), a procedure implicite in ambito ospedaliero cioè nel Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura o in Pronto Soccorso o nei Centri Psico Sociali o nelle convalide di Trattamenti Sanitari Obbligatori nelle abitazioni dei pazienti.

Mi riferisco anche a mie (non solo mie), dinamiche imitative (freudiane, kleiniane, lacaniane, bioniane → Ꝏ) equivalenti alle operazioni imitative nei confronti dei nostri maestri reali, dei nostri analisti, del loro corpo che mi, ci, hanno “agito”. Penso infine all’espressione clinica di altri deliri condivisi intrisi di normalità cioè a manifestazioni ora, a posteriori, a mio parere definibili come Deliri Normali. Alcuni, solo alcuni, esempi: l’eugenetica, l’abreazione, la fisiognomica, il brain-washing e l’elettroshock.

Ora però provo a non fuggire da quel che sta succedendo nella mia attuale esperienza clinica. Scrivere un caso. In genere i casi clinici che leggo non mi piacciono quasi mai. Sono sempre diversi dai racconti vivi, narrati a voce, in prima persona, dai colleghi in super o inter-visione. Come se ci fosse sempre, o quasi, un eccesso di traduzione, di mediazione culturale.

Con alcuni colleghi dell’Associazione culturale Ottocentro abbiamo creato e applicato un metodo di scrittura clinica simile, per ingenuità e immediatezza, agli appunti personali che talvolta prendiamo dopo la seduta. Abbiamo pensato ad un setting della scrittura, uno standard condivisibile. Questo setting consiste in una durata di non oltre quindici minuti di scrittura, in una lunghezza di una pagina word in times new roman 12 ed un tempo di stesura ovvero quello immediatamente successivo alla seduta. Abbiamo anche immaginato che l’assetto mentale del curante fosse in continuità con la precedente seduta. In sintesi, un proseguimento della seduta analitica in assenza del paziente. Metodo forse oggi interessante per cercare di so-stare in questo presumibile cambiamento catastrofico in corso. Tentativo di ancoraggio ad un contenitore comune dove depositare i nostri residuati e magari ricevere un qualche pensiero dai colleghi.

  1. 1. Inizia la seduta dicendo: “Ho un reflusso gastro-esofageo, se il virus mi infetta è peggio?” Fissandomi con grande attenzione mi chiede e mi richiede spiegazioni mediche. Ci incontriamo circa mensilmente per valutare la terapia psicofarmacologica che al momento è: Olanzapina 20 mg/die e Rivotril 10 gocce. E’ in psicoterapia con il collega inviante. Ha già avuto in passato crisi ipocondriache immerse in un’atmosfera paranoica a volte concretizzata in deliri persecutori. Spesso i vicini lo spiano, la rete lo osserva e Berlusconi in tv si “riferisce” a lui. Trame raffinate ordite ai suoi danni.

Adesso è il suo corpo ad essere minacciato da un reale vicino e angosciante. Sento prurito al volto ma penso sia meglio non toccarmi la faccia, forse il virus sta girando per la stanza. Penso all’ansia telefonica di sua madre e di suo padre, i quali mi chiamano sempre dopo le visite per informarsi e per chiedermi, ogni volta, come si debbano comportare. Mi chiameranno anche questa volta. La pressione che sento è talvolta acuta, in relazione alle crisi deliranti e pantoclastiche del paziente, ma costantemente percepisco su di me una pressione invischiante. Come adesso. Gli chiedo cosa stia facendo in queste giornate di clausura. Mi risponde che non è cambiato nulla, che è abituato a stare in casa, magari molto in rete. Però l’unico cambiamento è che ha da poco sospeso di frequentare i social perché eccessivi, troppo coinvolgenti, troppo attenti a lui. Ha spento le intrusioni che lo controllavano e che producevano rumore e paura del virus. E’ attentissimo a quello che dico. Mi sento un solido-pieno e pesantissimo. Mi annoio e, non solo non riesco ad accogliere la sua paura, ma me ne difendo diventando un esperto un virologo. Casco nel reale, non riesco a sognare-inconsciare (Civitarese, 2014) non ho metafore. Un virologo entra nella stanza, un padre-medico competente. Lo tranquillizzo logica-mente anestetizzando la pericolosa connessione tra reflusso gastrico e virus. Ho pensato ad un’angoscia biochimica, solida e ad uno statuto famigliare ripetitivo fatto di allarme cronico. Ho accettato questa configurazione costante. Ho accettato un bambino spaventato dalla morte per contagio. Non ho modificato la terapia farmacologica.

  1. 2. Sono sulla soglia del mio studio, lei è sul divano nella sala d’attesa senza mascherina. Le mostro la mascherina che indosso per ricordarle di indossarla. L’avevo contattata con un messaggio offrendole la possibilità di vederci on-line. Aveva rifiutato. Le avevo allora comunicato che avremmo potuto vederci nel mio studio indossando le mascherine.

Si alza, entra nella stanza, si siede e non indossa la mascherina. Sorride, non parla. Mi guarda e improvvisamente è in marcato affanno, piange, si rannicchia sulla sedia e muove le braccia alla ricerca di aria. Le chiedo cosa lei stia succedendo ma non riesce a parlare, le dico che è un attacco simile ad altri e come gli altri passerà. Ne ha già avuti ed è arrivata da me perché ad un primo incontro con una collega psicoterapeuta era rimasta travolta dal panico. La collega si era molto preoccupata, forse spaventata e le aveva vivamente consigliato di rivolgersi ad uno psichiatra.

Seduta di fronte a me sembra affogare. Capisco di dover tacere. Lei sta già lavorando per sé, per cercare di respirare. Riesce a chiedermi di togliere la mascherina. Non sono a mio agio. Penso che il suo respiro affannato stia propagando invisibili mostri nella stanza per me infettivi. Vedo anche una bambina terrorizzata. Mi scarto per un istante da questo eccesso di reale nel setting e cerco un’interpretazione. Non la trovo. Dov’è la réverie? Sento un nascente movimento verso di lei come di abbracciarla per calmarla come mi capitava con i miei figli quando avevano paura. Non tocco i pazienti, sono un medico probabilmente un po’ fobico del contatto fisico con i pazienti. Infatti ho scelto di fare lo psichiatra. Ingolfato da tutto ciò espello questo agglomerato emotivo togliendomi la mascherina. Respiro meglio. Lei mi vede, mi sento visto. Mi tranquillizzo anche percependo una distanza tra noi di circa due metri nonché la finestra aperta. In un paio di minuti lei si tranquillizza. Respira e mi ringrazia per essermi tolto la mascherina. La seduta prosegue. Dice che dall’esplosione del contagio si sente meglio. Può guardare fuori senza sentirsi continuamente minacciata dal panico, dal perdere il controllo e dal dover sempre fuggire nel suo bunker interno. Ricordo che da piccolo a volte mi ritiravo in uno sgabuzzino con acqua, cibo e giornalini. Ogni tanto socchiudevo la porta per dare un’occhiata. Fuori tutti sembravano tranquilli. Dopo un po’ di tempo uscivo contento. Almeno così ricordo. Lei sta lavorando in smart-working e vede amici altrettanto in remoto. Si parla del suo essere rimasta per tanto tempo ritirata in uno spazio chiusissimo agli altri, “gli altri non se ne accorgevano ma io stavo male, non facevo altro che controllarmi”.  Mi racconta di aver sognato un bellissimo delfino con il quale stava giocando. Poi ha voglia di fotografarlo ma il delfino si muove e non riesce ad inquadrarlo anche perché è troppo vicino. Penso che terrore e amore a volte non siano tra loro distinguibili, potenti invasori ignoti ai quali diamo nomi per controllarli.

Dopo un giorno rileggo il secondo caso. Penso ad un gioco di maschere e tra queste una mia ↔ sua maschera, volata via in seduta, che portava forse con sé un qualche desiderio di vicinanza amorosa ed altri di odio. Penso ad una vicinanza sessuale di ingravidamento e/o di infettamento che abbiamo reciprocamente controllata. Mah chissà cosa dirà chi leggerà, che operazioni incontrerà? Magari si eserciterà. Potrei adesso modificare il testo ma c’è una deontologia che non me lo permette.

Qual è adesso la nostra etica deontologica? Sta cambiando? Vale meno una seduta in remoto? Siamo più o meno etici a vedere o non vedere un paziente in studio? Sta cambiando il funzionamento della nostra mente professionale? Ci domandiamo del cambiamento di setting? Corriamo rischi di eclettismo o di imbarbarimento? Credo sia etico porsi queste domande.

Stiamo usando Skype, Whatsapp, Zoom, sono protesi incorporate che forse ci stanno trasformando in Cyborg Naturali (2). Credo che questa smaterializzazione dei nostri corpi-setting imponga una smaterializzazione della nostra esperienza. Una rielaborazione di qualche cosa che ancora non sappiamo cosa sia. Il rischio è di incorporare questi elementi, di esserne incorporati in una sorta di identificazione adesiva, solo procedurale cioè implicita. Ecco un possibile esempio di Psicosi Implicita nel senso di nonpensabilità, di automatizzazione del pensiero che diventa già, quindi mai, conoscibile. Penso sia perciò doveroso immaginare un processo di digestione-mentalizzazione di questi oggetti-protesici in quanto oggi presenti nelle nostre relazioni analitiche e costitutivi dell’Area Transizionale (Winnicott, 1971). Ripenso al discorso di Mc Luhan relativo al rapporto tra mezzo di comunicazione e messaggio (il mezzo è il messaggio) e penso che possa essere opportuno considerare questi Mezzi di comunicazione come Oggetti transizionali. Quantomeno per provare a pensarli, a sognarli, a inconsciarli.

Perciò ora un altro gioco.

Osservazioni sui Mezzi Transizionali.

Nel 1912 Freud propone un’analogia tra il processo inconscio → conscio e processo fotografico: “La prima fase fotografica è quella della negativa; ogni immagine fotografica deve passare attraverso il “processo negativo”, e alcune di queste negative (elementi inconsci) vengono passate al “processo della stampa positiva”, che si conclude con l’immagine fotografica” (elementi consci). Quel che mi sembra interessante non è l’analogia in sé tra processi (inconscio → conscio / negativo → positivo), ma l’inserimento di un processo artificiale nel ragionamento freudiano, un

processo meccanico ri-produttivo che produce repliche modificate cioè dal negativo al positivo, dall’inconscio al conscio.

Nel 1931 Walter Benjamin descrive un Inconscio Ottico: “La natura che parla all’apparecchio fotografico è diversa da quella che parla all’occhio umano. Al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo c’è uno spazio elaborato inconsciamente. La fotografia mostra questo Inconscio Ottico così come la psicoanalisi mostra l’inconscio delle pulsioni umane”. Forse Benjamin sta dicendo che la macchina fotografica è un elemento trasformativo delle nostre percezioni quindi, conseguentemente, dei nostri processi trasformativi consci e inconsci. Come la psicoanalisi.

Nel 1962 Bion, al quale non posso non chiedere un’opinione, scrive: “La verità che le registrazioni meccaniche posseggono è quella delle fotografie: la loro obbiettività è solo apparente, dato che nel momento in cui si incomincia a registrare la falsificazione viene trasportata a monte, cioè all’interno della stessa situazione in cui si registra; la fotografia della fontana della verità può  

anche essere buona ma l’oggetto fotografato è una fontana inquinata dal fotografo e dai suoi apparecchi. Resta comunque il problema di interpretare la fotografia e in questo caso il coefficiente di falsificazione è ancora più grande, perché una registrazione ha l’inconveniente di rendere verosimile ciò che è già stato falsificato” (Bion, 1962).

Bion sembra non lasciare speranze al poter “introiettare” il mezzo che è per lui un indigeribile anzi un veleno, una falsificazione, direi uno schermo beta, nel percorso di scoperta della prossima verità cioè del processo analitico. Ingombrante Bion.

 Cerco e trovo un altro Inconscio quello che Franco Vaccari (1979) chiama Inconscio Tecnologico:

“Noi sosteniamo un radicale spostamento verso lo strumento (fotografico) che è dotato di

un’autonoma capacità di organizzazione dell’immagine indipendentemente dall’intervento del soggetto. Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui”. Vaccari non parla di repliche false ma della sostituzione del Soggetto con un Oggetto dotato di autonomia. Il soggetto scompare. Pesantissimo Vaccari.

Nell’analogia di Freud, nell’inconscio Ottico Benjaminiano, nel rapporto analitico alterato di Bion e nell’inconscio Tecnologico di Vaccari c’è una Macchina che nel corso del tempo si è trasformata.

I suoi processi, profondamente collocati oggi “tra” i soggetti, si sono modificati. La sua capacità di sostituirsi alla realtà deve, può forse, diventare una delle capacità del curante di abitare il setting.

Ora on-line.

  1. Attendo piuttosto teso l’inizio della seduta. E’ la prima volta che noi due utilizziamo Skype al posto del lettino ed è la prima volta che vedo un paziente da casa. Sono preoccupato per lo sfondo dietro a me che è molto differente dalle pareti bianche del mio studio. Inoltre il paziente è normalmente sdraiato sul lettino. Al lettino ci eravamo arrivati per gradi. Finiti i sintomi manifesti che avevamo chiamato “shock da granata”, erano finite anche le parole strategiche che erano state tantissime. Le emozioni erano esplose in seguito ad una bomba-tradimento-amante-sesso-ferita-perdita del desiderio-dei figli-dell’immagine. Aveva contenuto l’esplosione logica-mente configurandola in una strategica battaglia legale e nella ricerca di una nuova compagna. Lucidissimo scrutava la mia mente ma, rispettando il suo tempo, si stava fidando di me. Alcuni generali erano stati i nostri punti di riferimento. All’inizio il calcolante Sun-Tzu, poi il genio perturbato di Lawrence d’Arabia e infine, soprattutto, Amedeo Guillet (3).  Vis- a vis con una serie di mappe da battaglia tra di noi. Spesso arrivava sale sulle ferite. Ferite che sanguinavano, prima un recente sangue rosso rutilante, poi sangue scuro, sangue nero, antico. Si era sviluppato dopo i coetanei, un bambino tra uomini. Il suo mutismo lucido, i piatti freddi delle vendette. Il lettino ci aveva poi permesso di trovare antichi idoli buoni e altri feroci. Poi il covid-19, una soffocante seduta con mascherine, e la mia decisione di vederci in remoto.

Nel monitor compare un affascinante, colto, elegante, intenso uomo del sud.  Ci salutiamo e subito mi dice che non è come stare sul lettino, “c’è troppa vista”. Anche per me. Gli propongo di spegnere il monitor. “Proviamo?”. Spegniamo il video e teniamo l’audio. E’ come chiudere finalmente gli occhi.

Il sogno. “Sono su un divano con Giulia, la mia ex moglie. Lei però è bionda. Nella realtà è mora. E’ normale essere lì ma io sono molto emozionato. Le tocco una mano e con tenerezza giochiamo con le mani. E’ bellissimo stare lì. Poi nella stanza arriva mio figlio Enrico, che ha 13 anni, con un ragazzo che ha un po’ di barba, insomma ha l’età di mio figlio, forse un amico più grande che domina mio figlio. Poi non so. Sono piuttosto sconvolto. Stavo benissimo anche se l’arrivo di mio figlio e soprattutto dell’altro ha chiuso la situazione sul divano con la mia ex moglie. Come posso desiderarla ancora così? Dopo tutto quello che mi ha fatto. Nella realtà non mi interessa ma nel sogno…”. Nel frattempo io sto pensando ad un mio primo amore, alla leggerezza di quegli amori, “ai quadri alle pareti che producono gli inizi dei racconti” (Tirblitz, 1791). Poi mi vedo piccolo lupetto con la divisa verde e un foulard rosso. I più grandi se la intendono e mi escludono. Ho vergogna di me. “Mai più senza fucile” urlavano i compagni grandi pochi anni dopo. Vari tipi di armi e strumenti lui ed io avevamo utilizzato nella nostra vita per non essere esclusi e per essere amati. Vede sé stesso in suo figlio Enrico. Dominato. Vede se stesso sul divano felice di essere dominato dall’amore. Penso, pensiamo un po’ alla lotta per il dominio e poi vediamo una donna amata che ama. Soprattutto vediamo sognando. Poi la sveglia interna mi fa notare sul monitor che mancano 4 minuti alla fine della seduta. Inizio ad accomiatarlo e lui accende il monitor. Ci sorridiamo.

Penso alla possibilità che il collegamento in remoto e l’accecamento del monitor abbiano contribuito al lasciar fluttuare la mia attenzione ed al manifestarsi di una mia maggiore capacità onirica nell’ascolto del paziente. E’ possibile che ciò sia successo anche in relazione all’aver vissuto in una “realtà sostituita” direi “remotata”.

  1. Mi arriva su Whatsapp un messaggio di soccorso, rispondo dandole un appuntamento per tre ore dopo. La videochiamata mi esplode in faccia con la sua faccia vicinissima. Piange, si dispera e si muove continuamente. La connessione va in pausa, riprende a scatti e le immagini sono molto pixelate. Cerco di abbassare il volume altissimo. E’ un’infermiera che seguo farmacologicamente. Da mesi non la vedo né sento. E’ terrorizzata dalla possibilità di essere contagiata in reparto che è stato trasformato da medicina interna a terapia Covid-19 sub-intensiva. Urla che la mascherina non è adeguata, che i camici non sono idrorepellenti, che si lava senza sosta le mani. Si interrompe continuamente tra le lacrime. Sta assumendo Es-citalopram 10 mg, ha autonomamente aumentato Xanax da 0,25 due al dì a 0,50 tre volte al dì con, altrettanto autonoma, aggiunta di Valium 30 gocce alla sera.

Non riesce ad andare al lavoro ma si sente in colpa nei confronti dei colleghi. In casa sta male perché gli storici rapporti tesi con il marito ma soprattutto con la figlia adolescente stanno esplodendo. Io sono infastidito da tutto questo rumore.

Così a volte mi succede di fronte ad emozioni troppo rumorose per me. So controllarmi allontanandole con il mio strumentario psichiatrico. Mi raffreddo e divento operativo. Le chiedo di fermarsi, di sedersi e di spiegarmi meglio ciò che le sta accadendo. Penso sia tra due baratri ma quello più tremendo, vulcanico è il lavoro in ospedale. Le chiedo dell’effetto dello Xanax 0,50 e mi risponde che non lo sente. Delle gocce di Valium? Quelle la fanno dormire. Penso ad una terapia più complessa magari con uno stabilizzatore, penso alla Olanzapina ma non l’ha mai assunta e credo che l’introduzione di un nuovo farmaco potrebbe spaventarla ancor di più. O forse una prescrizione, concitata, potrebbe essere un mio prodotto concitato, iper-urgente. Mi viene in mente velocissimo Arieti: “Non c’è paziente che non possa aspettare 24 ore prima di vedere uno psichiatra, quel che è urgente è aspettare”. Grandissimo Silvano Arieti! Nelle urgenze questa frase è per me un mantra e funziona sempre, permette alla mia mente di farsi concava, di entrare in rêverie. Lei è un po’ più tranquilla. Decido che sia per lei meglio stare a casa, uno stare a casa da me certificato. Decido di modificare, per ora, solo la benzodiazepina accogliendo le “sue” gocce di Valium (20 x 3) che sostituiscono perciò lo Xanax. Le comunico che a fine visita le spedirò le foto del certificato e della ricetta con Whatsapp. Le scaricherà e le stamperà. Direttivo. Le consiglio di sentire le sua psicoterapeuta che non vede da 8 mesi. E’ molto attenta, forse ipnotizzata. Era in un Helter Skelter (Ronchi, 2020) (4) inseguita dalla morte, ora un poco meno. Rimango nella magia e le chiedo di chiamarmi tra due giorni. Acconsente ringraziandomi. Ci salutiamo e spegniamo.

Essendo questo scritto una cronaca è possibile che qualcuno, magari io stesso, legga i 4 casi e trovi, secondo una serie di propri vertici teorici e personali, un qualche sogno.

Forse dovranno passare 400 anni per capire cosa somministrare ai nostri spiriti ammalati.

Note

1) Il “fatto scelto”, analogo ad una emergenza evolutiva, ad un salto di paradigma, indica l’esperienza emotiva insita nella scoperta di qualcosa di coerente tra una serie di elementi precedentemente scomposti.  

2) Cyborg Naturali: una combinazione di naturale e artificiale con la capacità di potenziare le facoltà biologiche originariamente in dotazione

3) “Gli eritrei furono splendidi. Tutto quello che potremo fare per l’Eritrea non sarà mai quanto l’Eritrea ha fatto per noi”. Gen. Amedeo Guillet (Lapide esposta al cimitero italiano di Cheren, Eritrea)

4) Helter Skelter: traducibile in scivolo a spirale o caos è titolo di una canzone di Lennon-Mc Cartney considerata da Charlie Manson un invito a se stesso a diffondere il caos, a massacrare i bianchi. Un diavolo in persona che diventa uno dei più feroci assassini della storia.   

 

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