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La prospettiva teorico-clinica di George Downing e la concezione del soggetto come sistema vivente

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Paolo Milanesi1

La prospettiva teorico-clinica di George Downing e la concezione del soggetto come sistema vivente2

La prospettiva teorico-clinica di George Downing dimostra efficacemente come la psicoanalisi possa scoprire concordanze e opportunità di arricchimento avvicinandosi ai campi affini, come ad esempio la ricerca infantile e, in specifico, la video micro analisi.
Questo avvicinamento si è reso possibile grazie al crescente interesse per gli aspetti relazionali e intersoggettivi all’interno dell’ambito psicoanalitico, che hanno portato ad un progressivo cambiamento degli orizzonti epistemici di riferimento e, parallelamente, ad una revisione dei modelli teorici per la spiegazione dello sviluppo psichico.
La posizione teorico-clinica più generale cui intendo riferirmi è legata alla visione secondo cui il soggetto è concepito come un sistema vivente che risponde alla logica dei sistemi complessi dinamici non lineari.
L’individuo, in questa ottica, viene considerato come una organizzazione complessa, in continua interazione con l’ambiente in cui è inserito. Questa organizzazione è un sistema dinamico, nel senso che non è attestata sull’omeostasi ma tende verso il cambiamento, cioè verso forme di sempre maggiore complessità, pur ricercando la continuità e la coerenza. Non solo tollera l’incertezza, ma è aperta verso molteplici possibilità o deviazioni (Sander, 2007). Per mantenere la continuità che è la garanzia di vita del sistema sono necessarie alcune azioni o “attività primarie” di origine endogena, che riflettono la sua capacità di agency, cioè l’auto-organizzazione, l’auto-regolazione e l’auto-correzione (Bertalanffy, 1968).
La motivazione del sistema-soggetto non è data dal tentativo di creare o mantenere i legami con l’oggetto, ma dal ricercare o riconquistare lo stato di coerenza, in un processo continuo di tipo creativo. I cambiamenti individuali e la crescita sono spiegabili proprio sulla base di questa tendenza “all’unicità integrata” (Sander, 2007): gli elementi di discontinuità e cioè la diversità data da input esterni od interni, possono portare il sistema a ricercare nuove e più complesse forme di organizzazione, comunque stabili, creando un flusso di espansione, tendenzialmente armonico e coerente. La visione del gruppo di Boston riflette questa posizione: ogni sistema si auto-organizza, ma il proprio stato di coscienza (o appunto di organizzazione) diventa più coerente e complesso se è in collaborazione con altri sistemi; secondo questo principio di auto-organizzazione la mente tende ad usare i cambiamenti che intervengono nell’ambiente intersoggettivo per sviluppare modalità interattive via via sempre più coerenti (Carli, Rodini, 2008).
Il lavoro di George Downing, grazie alle riprese filmate, permette di entrare nel vivo dello scambio interattivo della coppia bambino-caregiver e toccare con mano i principi che regolano tale scambio.
Grazie all’Infant Research, oggi sappiamo che i neonati percepiscono l’ambiente che li circonda fin dai primi giorni di vita. Innumerevoli ricerche, condotte da numerosi autori (Mac Farlane, 1975; Emde, 1978; De Casper, 1980; Field, 1982; Ekman, 1983; Bornstein, 1985; Papousek, 1986; Haith, 1988;  Fitzgerald, 1989; Fagan, 1990; Perris, 1990; Cohn, 1992;  Kugiumutzakis,  1993;  Meltzoff,  1993;  Reddy,  1997;  Taddio, 1997), hanno dimostrato, da più di un trentennio a questa parte, come il bambino, anche molto piccolo, sia capace di avere ricordi di esperienze precedenti, che si manifestano in termini di apprendimento comportamentale, percettivo ed emozionale. Questo genere di ricordi costituiscono quella che viene definita memoria implicita o procedurale e quando vengono richiamati, non sono accompagnati dalla sensazione interna di stare ricordando qualche cosa. In termini evolutivi, questo genere di memoria è generalmente considerata precedere quella dichiarativa anche se alcuni ricercatori dubitano che i due sistemi emergano indipendentemente e sequenzialmente. Alcuni Autori (Meltzoff, 1993; Gaensbauer, 2002) ritengono che il funzionamento possa essere olistico ed integrato fin dai primi stadi di sviluppo e cioè che le rappresentazioni risultino codificate, più che dicotomicamente, anche in canali multipli (fisiologici, affettivi, multisensoriali, comportamentali, verbali e simbolici), e in questa prospettiva possiamo inquadrare il concetto di “percezione amodale”.
Mentre la memoria dichiarativa concerne il ricordo, la memoria procedurale concerne il cambiamento comportamentale (Squire, 1993). In altre parole, la prova di questo secondo tipo di memoria si riscontra attraverso indicatori comportamentali, anche quando potrebbe non esserci alcun richiamo conscio delle esperienze in cui il ricordo stesso si è concretizzato. Una rappresentazione immagazzinata in un evento passato, inaccessibile al richiamo, ma che influisce sul funzionamento di una persona, viene considerata parte della conoscenza procedurale. Un’altra evidenza, le cui conseguenze non sono di poco conto, è che l’apprendimento procedurale, pur essendo inconsapevole e non intenzionale, è in continua evoluzione.
La prospettiva dell’elaborazione implicita sostiene che il “comportamento interattivo sociale” viene coordinato a livello di frazioni di secondo, in modo inconsapevole, con tale rapidità e densità informativa da non consentire il controllo cognitivo centrale. Ciò nonostante, la relazione diadica trasmette a livello implicito un’enorme quantità d’informazioni  atte  a  strutturare  significati  e  quindi  a  motivare  azioni (Beebe, Lachmann, 2002). In questo senso le azioni contengono le informazioni come proprietà oggettive, a differenza della prospettiva esplicita, secondo cui le informazioni non possiedono una realtà psicologica finché non sono rappresentate simbolicamente.
E’ su queste basi che Lyons Ruth (1998) ha elaborato il suo concetto di “conoscenza relazionale implicita”, quella conoscenza che il bambino ha a disposizione per sapere come stare con l’altro e che si costituisce attraverso un’integrazione dei processi di reciproca regolazione, sperimentati con il caregiver e sedimentati nel tempo. La conoscenza relazionale implicita è costantemente aggiornabile e riorganizzabile perché accessibile nelle interazioni quotidiane e si fa via via sempre più complessa; ovviamente è sedimentata nel caregiver la conoscenza complementare.
Le riprese video, sezionate fino al singolo fotogramma, permettono la visione di micro-sequenze interattive e rivelano universi interpretativi, impensabili fino a un trentennio fa, di ciò che avviene nello scambio regolativo  della  coppia  caregiver-bambino  ed  è  in  questo  modo  che l’Infant Research ci mostra quella che in molti chiamano “co-costruzione del significato”.
Il significato emerge come figura sullo sfondo, aggregando una serie di dati del mondo percettivo, fatti fisici, che possono essere basati sul ritmo spazio-temporale, sui ritmi vocali, sui ritmi d’azione e dello sguardo, sulla prossimità e sulla distanza. Non c’è consapevolezza della formazione co-partecipata  di pattern di avvicendamento, mentre c’è un aumento di complessità a fronte del perseguimento della coerenza nell’organizzazione del sistema. Questi pattern sono piccole unità, basate su scambi che avvengono nell’ordine di micro-secondi e che vanno ad aggregarsi e a costituire unità più grandi, dotate di maggior complessità, che strutturano nuovi modi di essere insieme. Ci si incontra sul piano emotivo, motorio, visivo e vocale nell’avvicendamento dei turni. Ci stiamo riferendo, in questo modo, al bambino molto piccolo, diciamo prima dei 18 mesi. In quel periodo dello sviluppo, sono portato a pensare che la co-costruzione del significato altro non sia che il gioco auto ed etero regolatorio che avviene tra i partner. In altre parole, penso che i due concetti, costruzione del significato e gioco, visti nella loro processualità, coincidano all’interno di un percorso che va sempre più verso un incremento della complessità, attraverso la continua riorganizzazione della coerenza del sistema. Dopo i 18 mesi tutti gli studiosi e i ricercatori concordano nel prendere atto di un passaggio evolutivo di enorme divaricazione e di cambiamento rivoluzionario. Daniel Stern (1985) ad esempio, esplicita chiaramente che nel secondo anno di vita emerge un nuovo senso del sé, caratterizzato dalla capacità di fare dello stesso sé un oggetto di riflessione, dalla capacità di impegnarsi nel gioco simbolico e dall’acquisizione del linguaggio. Sander (1995), nella stessa linea, afferma che il bambino, agli inizi del secondo anno di vita, esperisce l’emergente consapevolezza del proprio stato interno d’intenzione e direzione, in altre parole nasce in quel periodo la consapevolezza del proprio stato e la consapevolezza della propria agency.
Il bambino al di sotto dei diciotto mesi basa le proprie computazioni su forme di rappresentazione pre o sub-simboliche e ciò lo porta, presumibilmente, ad esperire la realtà in una forma che potremmo definire “diretta” senza cioè la possibilità di un’intermediazione simbolica. Il bambino è certamente consapevole dell’esperienza che vive ma non può essere  consapevole  di  esserlo.  Questa  coscienza  è  una  coscienza d’oggetto ma non è certo coscienza di avere una coscienza d’oggetto e soprattutto non è coscienza di sé. Dopo i 18 mesi emerge una qualità specie specifica dell’essere umano che ha a che fare con l’uso sofisticato del simbolo: mi riferisco alla capacità autoriflessiva.
Ad un certo punto della sua vita il bambino può accorgersi che esiste un soggetto che sta esperendo e dunque assumere se stesso come oggetto di conoscenza, inoltre, in modo progressivamente sempre più complesso, potrà rendersi conto (sarà cioè autocosciente) che esiste un’immagine interiore dell’oggetto che non coincide con quello reale posto fuori di sé. Quindi, dopo i diciotto mesi, la rappresentazione diretta della realtà, che può essere anche il proprio mondo interno, è presa essa stessa quale elemento di attenzione e rappresentazione. Da questo momento il bambino è in grado di cogliere l’oggetto, di cogliere se stesso e di cogliere il legame tra essi: il mondo dell’individuo si rinnova perché l’individuo stesso è chiamato a fare proprio l’universo che lo riguarda, cioè a esprimere significati soggettivi generati dal soggetto e attinti nel soggetto stesso (Minolli, 1996).
In sintesi, ritornando al processo interattivo, assistiamo ad un movimento evolutivo progressivo che va dal micro al macro, da sottosistemi  a  sovrasistemi,  dalla  continuità  alla  variabilità,  dalle  parti  al tutto, dai pezzi di significato al significato sempre più globale, dalle rappresentazioni presimboliche all’uso sofisticato del simbolo, fino all’emergere dell’auto-coscienza.
Con questo termine, l’accostamento va a Hegel (1807) e al processo dell’autocoscienza o presenza a sé stessi, ripresa ed elaborata da Michele Minolli. Autocoscienza che non è solo nel cogliere la distinzione tra sé e l’oggetto o nell’andare oltre la coscienza intellettiva e accedere alla riflessione di sé come oggetto, ma soprattutto è nella qualità del contatto con la propria unitarietà psicofisica ed emotiva: presenza a sé stessi, appunto.
Penso  che  non  sia  stata  sufficientemente  evidenziata  l’importanza dell’emergere di questa qualità specie specifica del sistema umano, che lo differenzia dagli altri sistemi viventi, perché con l’emergere dell’autocoscienza le potenzialità del sistema umano vengono enormemente accresciute e forse è stata sottovalutata la portata di questo salto evolutivo nei confronti delle regole che presiedono allo scambio interattivo tra il bambino e i suoi partner.
Sicuramente il processo dell’autocoscienza diviene possibile grazie alla funzione riflessiva ed è da questa accompagnato, ma non possiamo pensare che si esaurisca in essa; l’autocoscienza è frutto dell’organizzazione e dell’integrazione di più parti del sistema e rimanda alla questione del rapporto mente-corpo che, a sua volta, rimanda inevitabilmente al rapporto esistente tra i due sistemi di memoria cui ho accennato.
In una visione unitaria del soggetto dobbiamo considerare tutto l’universo dell’implicito; troppo spesso diamo per scontato che concetti come “rappresentazione”, “mentalizzazione”, “simbolizzazione” e “significazione” avvengano tutti a livello del registro verbale e della memoria esplicita dichiarativa. Oggi sappiamo che anche l’espressione per via procedurale è veicolo di significati e quindi di simbolizzazione. E’ ampiamente dimostrata la presenza nel bambino di una teoria della mente e di una crescente capacità di pensare sui suoi pensieri e su quelli degli altri. La teoria che viene attribuita al bambino, tuttavia, è una teoria molto spesso implicita, dedotta dai ricercatori sulla base del suo agire e non del suo “pensare verbale”; quindi non esiste necessariamente come teoria esplicita o rappresentata verbalmente nel bambino.
Credo che un vertice di lettura del percorso di studio e di lavoro di George Downing, possa essere quello che vede come tema di fondo un movimento che tende ad andare oltre, cioè a superare la dicotomia mente-corpo. Questo ambito tocca inevitabilmente e profondamente i referenti epistemici a cui, in modo più o meno consapevole, facciamo riferimento e rispetto ai quali siamo chiamati ad uno sforzo attento di messa a fuoco e di cambiamento, nel nostro operare clinico e, oserei dire, nel nostro essere. La distinzione tra memoria esplicita-dichiarativa e memoria implicita-procedurale, per quanto ci abbia permesso di capire molto del modo in cui l’essere umano entra in interazione con l’altro, (pensiamo appunto al concetto di conoscenza relazionale implicita della Lyons-Ruth), rischia a sua volta di perpetuare la dicotomia. Anche l’uso del termine “rappresentazione”, o la distinzione e contrapposizione tra “simbolico e non simbolico” perpetua la dicotomia. In fin dei conti si tratta di costrutti, perché noi non vediamo la memoria implicita o quella dichiarativa né le rappresentazioni.
Forse una visione sistemica (nel senso di teoria dei sistemi complessi) dell’essere umano può indicare la via per andare oltre l’uso di questi costrutti e di questa terminologia così carica di significati storici per approdare ad una differente visione epistemica che permette di cogliere  la dimensione specifica dell’essere umano.
La teoria dei sistemi complessi, dinamici e non lineari ha tracciato un solco e aperto prospettive che ora si tratta di percorrere. Essa può venirci in aiuto nel senso di permetterci di considerare tutti questi termini (e le funzioni a cui rimandano) semplicemente come elementi del sistema che, nella loro complessa integrazione, concorrono a determinare i continui cambiamenti nella coerenza del sistema stesso, cioè nella sua organizzazione in rapporto al mondo degli stimoli, in un reciproco coordinamento ecoregolatorio. Da questo punto di vista mi pare eccessivamente semplicistica anche la netta distinzione di uno spartiacque tra prima e dopo i 18 mesi; possiamo dire che progressivamente il sistema umano raggiunge un grado di complessità e coerenza tra le parti, che gli permette un salto qualitativo nella sua organizzazione, tale per cui acquisisce la capacità-possibilità di osservarsi nel suo agire e nel suo stesso organizzarsi, cioè non rimane semplice esecutore e spettatore del suo fare ma può esprimersi all’interno dello stesso processo organizzativo. Il livello di presenza del sistema, esercita un’incidenza sulle esperienze interattive della vita di tutti i giorni, ma questa acquisizione qualitativa non è dipendente dai fatti o esperienze della vita. Stabilire una data o un periodo preciso in cui tale complessità si manifesta mi pare fuorviante perché significa attribuire alla natura fisiologico/genetica dello sviluppo il primato sulla qualità stessa mentre essa è insita nella complessità e nella coerenza del sistema e non è solo geneticamente determinata. Quello che possiamo dire è che questa qualità specie specifica è sempre in evoluzione, appartiene al sistema nel senso che è una sua caratteristica ed emerge come frutto dell’integrazione complessa delle parti conferendo al sistema la possibilità di influire sulla propria organizzazione, pur essendone al contempo essa stessa parte integrante.
Nei filmati che Downing ha realizzato e che ha mostrato nel seminario milanese della SIPRe sono stati evidenziati i micro secondi nei quali gli occhi del bambino hanno incontrato gli occhi della madre o in cui la sincronia dei reciproci movimenti ha permesso loro di “incontrarsi” e di congiungersi. I presenti hanno potuto assistere a ciò che, a seconda dei diversi autori,  possiamo chiamare “momenti di incontro” (Stern, 2004), “momenti affettivi intensi” (Beebe, Lackman, 2002), “espansione diadica di coscienza” (Tronick, 1998) o ancora “riconoscimento dello stato dell’altro” secondo l’accezione sanderiana (Sander, 1995).
In base a questa visione, la natura e la qualità delle proprietà che emergono nel bambino sono determinate dalla “specificità del riconoscimento all’interno dell’interazione”, cioè dall’adeguatezza della comprensione dello stato del bambino da parte della figura di accudimento. Questo processo di regolazione reciproca coordinata viene infine interiorizzato. Di fatto si sostiene che è “il momento di incontro” o il “riconoscimento”, l’evento che porta a una riorganizzazione del sistema e ad un cambiamento evolutivo. Analogamente, nel rapporto analitico, la sintonizzazione o la capacità di riconoscere lo stato dell’altro, da parte dell’analista, porta ad un momento di “incontro” che determina un avanzamento o meglio un aumento di complessità e coerenza nel sistema.
C’è, a mio avviso, un rischio, che è quello di assumere un punto di vista riduzionistico e deterministico. Vorrei entrare più approfonditamente in questo discorso, cercando di distinguere i fatti che osserviamo nei filmati dalla spiegazione di come la coerenza sia co-costruita nel e dal sistema.
Entrando nel dettaglio, vorrei proporre una riflessione sul concetto di “riconoscimento” inteso come principio organizzatore del processo evolutivo. Diamo pure per scontato che l’incontro tra gli occhi della madre e quelli del bambino abbia costituito un momento fondante e organizzante il processo evolutivo. Un evento accompagnato da sensazioni di appagamento che, nell’esperienza vissuta, possiamo sintetizzare così: “io, bambino, mi accorgo di essere visto e colto da te madre nel mio stato e contemporaneamente vedo te, colgo te, madre, nel tuo stato ed entrambi siamo consapevoli della reciprocità, dell’unicità e della pregnanza di ciò”.
Dobbiamo considerare il cogliere lo stato dell’altro come condizione sufficiente perché il partner possa operare a sua volta il proprio cogliersi e riconoscersi? In altre parole: “è necessario e sufficiente l’essere riconosciuto perché avvenga il “riconoscersi?” Non credo. Sicuramente ciò costituisce un indispensabile fattore facilitante, ma non è l’elemento causale diretto. E’ facilitante perché mette a fuoco l’esperienza sottolineando la co-partecipazione, ma non esiste riconoscimento proveniente dall’altro che sia in grado di condurre al proprio soggettivo autoriconoscimento. Quest’ultimo dipende dalle possibilità organizzative del sistema in rapporto alla propria coerenza in quel preciso momento. In altre parole, dipende dal significato che assume per quel soggetto quella esperienza. “Solo il processo auto-organizzante dell’attivo riconoscersi, fonda “la presenza a se stesso” e ne struttura il divenire in prima persona (Minolli, 2009).
Durante questa processualità noi vediamo il sistema aumentare la propria  complessità  e  approdare  ad  una  nuova  coerenza,  diversa  da quella precedente, e l’accedervi comporterà anche scombussolamento, forse a volte drammaticità, ma dobbiamo evidenziare e dare primato alla capacità del sistema vivente di darsi una nuova coerenza, indipendentemente dall’altro.
Se sostenessimo un riconoscersi dipendente da un essere riconosciuto, sosterremmo la dipendenza e la passività a scapito dell’agency del soggetto.
Non intendo affatto sminuire l’importanza della capacità di percezione dello stato dell’altro da parte del partner; essa svolge una funzione rilevante perché credo permetta di qualificare positivamente  il rapporto tra la madre e il bambino nel senso di svincolarlo dai contenuti e dal contingente, sia esso perturbante o meno. Ha cioè l’effetto di sostenere l’attivo processo auto-organizzante del sistema a prescindere dell’esperienza concreta, cioè al di là che i contenuti dell’esperienza siano negativi o positivi. Il sistema umano ha però anche la capacità di instaurare un rapporto di accettazione attiva del proprio essere quello che è.
In altre parole, il bambino può riconoscere il proprio stato, accettarlo o meno, il che implica anche un’assunzione da parte del sistema del suo riconoscersi nello stato. L’assunzione dello stato esistente, riconosciuto precedentemente come proprio, è in effetti qualificata come accettazione attiva dello stato del sistema.
Più in generale, da un punto di vista strettamente teorico, se consideriamo il soggetto come sistema che si sviluppa nella relazione con l’altro, nel processo di interazione tra aspetti esterni e interni, è l’organismo che risulta essere l’organizzatore attivo del proprio sviluppo. I sistemi complessi sono infatti dotati di caratteristiche specifiche grazie alle quali “ordine, complessità e forma si producono emergendo, cioè auto-organizzandosi” (De Robertis, 2005) e una concezione interazionista deve comprendere una visione del soggetto umano come entità auto-organizzante.
Utilizzando questa lettura, che sottolinea come “l’azione” dell’emergere della coscienza appartiene al sistema individuo grazie alle sue capacità e ai suoi processi auto-organizzativi (Varela, 1992), non è possibile accettare una visione interattiva di tipo deterministico. L’essere umano è un soggetto attivo e riflessivo che, grazie a capacità ed attività endogene, si pronuncia su se stesso; gli stati di coscienza diadici, la sintonizzazione affettiva, l’esperienza di riconoscimento sono esperienze esterne che possono facilitare l’accesso all’autocoscienza, ma non possono determinarla.
La capacità di autocoscienza, o presenza a sé stessi, in quanto speciespecifica, pone all’essere umano un problema ineliminabile, che consiste nel non poter accettare di essere determinato dall’esterno e quindi di dover ricercare un senso soggettuale alla propria esistenza (Minolli, 2005).
Sono convinto che l’abile, ma soprattutto autocosciente, metodo terapeutico di George Downing, operato attraverso la selezione delle riprese filmate e l’osservazione guidata di queste insieme alla madre, faciliti la mobilitazione del processo dell’autocoscienza nella madre stessa. Le permette di osservarsi durante l’interazione con il figlio e di osservarsi in punti particolari dell’interazione, quei punti che condensano universi di significati. Cogliersi e riconoscersi in quei punti, o in quello stato, uscendo dall’automatismo procedurale per approdare ad una differente organizzazione, sarà dipendente da lei soltanto, cioè dalla capacita/possibilità di confrontarsi con quegli specifici significati.
Sulla base di queste considerazioni e partendo dal presupposto che il cambiamento (tanto in terapia, quanto nel normale processo evolutivo di crescita) sia da intendersi come il raggiungimento di “una nuova e più inclusiva coerenza riguardo a se stessi all’interno del proprio ambiente vitale” (Sander, 2005), possiamo dedurre alcune implicazioni di carattere clinico:

1) la relazione paziente-terapeuta è il luogo dell’interazione di due sistemi diversamente organizzati, che tendono ad autoregolarsi attuando le proprie soluzioni auto-organizzative in un flusso interattivo continuo, dando luogo ad un campo relazionale;

2) la patologia va intesa come una “soluzione” auto-organizzativa del sistema, rispetto al contesto nel quale è avvenuta l’interazione evolutiva, connotata da rigidità e chiusura, a salvaguardia del sistema stesso;

3) la sofferenza psichica è data da “perturbazioni”, cioè input esterni o interni che sollecitano un sistema connotato da rigidità o chiusura, verso un cambiamento nella direzione dell’autocoscienza;

4) l’analisi è il luogo in cui il paziente sperimenta la possibilità di un rapportarsi attivamente con se stesso, accogliendo la perturbazione-sofferenza come elemento di rottura di una soluzione adattativa che è divenuta disfunzionale e come segnale di una necessità di cambiamento, confrontandosi con la paura che questo comporta.

5) obiettivo dell’analisi  non è più “rendere conscio l’inconscio” ma aiutare/accompagnare il sistema a mobilitare l’autocoscienza, cioè il riconoscimento del proprio stato in quanto proprio, attraverso un particolare processo elaborativo, per approdare all’assunzione del riconoscersi, intesa come assunzione attiva dello stato del sistema, accettazione di sé in un momento dato, riassumibile in: “quello che sto provando mi appartiene, sono io” (Minolli, 2009).

6) l’interpretazione perde il suo ruolo illuministico di “verità” spiegativa  che, grazie all’insight, dà origine al cambiamento. Non si esplica solo attraverso il codice verbale ma è un “fatto relazionale complesso” (Mitchell, 1993), connotato emotivamente e sensibile alle risorse trasformative che qualsiasi sistema, per quanto rigido, possiede. Tende a cogliere e restituire al paziente il proprio stato, nell’attesa che si aprano nuove possibilità di pensiero e nuovi spazi potenziali.

 

SOMMARIO

L’ Autore descrive inizialmente il lavoro clinico portato avanti negli anni da George Downing, ne esplicita i referenti teorici sottostanti, con particolare riferimento al concetto di “memoria procedurale” quale costrutto spiegativo della qualità interattiva che caratterizza ogni relazione  umana fin dai primi giorni di vita. In un secondo tempo prova ad inserire tale concezione all’interno di una prospettiva più ampia che si colloca, da un punto di vista epistemico, nella teoria dei sistemi complessi dinamici e non lineari. La motivazione del sistema-soggetto, in quest’ottica, non è data dal tentativo di creare o mantenere i legami con l’oggetto, ma dal ricercare o riconquistare lo stato di “coerenza sistemica” in un processo creativo e continuo. Anche il concetto di “riconoscimento”  viene  rivisitato  secondo  questa  prospettiva  prendendo  le mosse dalla descrizione che ne diede Hegel nella sua Fenomenologia dello spirito e nella descrizione del processo dell’autocoscienza.
Si desume che l’esplicitazione dei referenti teorici impliciti dell’analista sia condizione sine qua non per dare vita, all’interno del processo analitico, ad un percorso che fondi la presenza ai propri stati interni e quindi a sé stesso del soggetto.

 

SUMMARY

First of all, the Author describes the years-long clinical work carried out by G. Downing, expliciting the underlying theorical referents. Particular attention is payed to the concept of “procedural memory”, as an explication of the interactive quality that characterizes every human relationship, from the craddle on. Secondarily, an attempt is made to insert such a conception into the broader perspective of the complex non-linear systems. From this vantage point, the motivation of the subject-system does not depend on the tentatively creation or maintenance of object-boundaries, but on looking for or conquering the state of “systemic coerence” in a creative and continuative process. Also, the concept of “acknoledgement” is reviewed from this perspective, beginning from Hegel, his Phenomenology of the Spirit and his description of the process of the self-consciousness.
The explicitation by the analyst of its implicit theoretical referents is assumed as a sine qua non to create an analytical pathway able to provide subjective presence in front of one’s internal states and in front of oneself.


1 Paolo Milanesi è è Psicologo, Psicoterapeuta e Psicoanalista della Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione (SIPRe). Da anni si occupa di Psicoterapia e Psicoanalisi del Bambino, sia privatamente, sia nell’ambito di più ampie strutture.

2 Questa relazione è stata letta a Milano il 21 febbraio 2009, in occasione del convegno-seminario con George Downing organizzato dalla SIPRe.


 

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